Da LA STAMPA Sezione: Torino cronaca Pag. 49

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  • 31 Luglio 2003

di Monica Perosino

IL foglio ingiallito è piegato in quattro. Maurizio Puddu lo tiene in uno scomparto del portafoglio da 25 anni, luglio 1977: «Ecco, guardi, è la rivendicazione dell’attentato delle Brigate Rosse. Lo porto sempre con me, perché quel giorno rappresenta lo spartiacque della mia esistenza. C’era un prima e c’è un dopo». La prima vita di Maurizio Puddu finisce alle due del pomeriggio di quel giorno di luglio. Ha 45 anni, è sposato, ha due figli. L’incarico di consigliere provinciale Dc lo fa apparire, agli occhi del commando brigatista che si appresta a sparargli, come il Nemico, quello con la maiuscola. Sono in tre ad aspettarlo, sotto casa, in corso Unione Sovietica. Lui neanche li nota, impegnato com’è a raccogliere alcuni fogli che ha sparsi sul sedile e a infilarli nella borsa di pelle nera. Parte un primo colpo che lo raggiunge alla gamba sinistra. Poi, in successione, gli altri. Sull’asfalto, gli agenti della scientifica metteranno 14 cartellini accanto ai bossoli dei proiettili esplosi. «Mi è sembrata un’eternità» ricorda oggi quest’uomo che avanza zoppicando vistosamente. «Ad ogni colpo pensavo fosse l’ultimo e invece…». Puddu viene trasportato d’urgenza in ospedale, riprende conoscenza e la prima cosa che sente è un medico che dice: «Questo è spacciato: ha l’arteria femorale lacerata». «Ma io non vorrei morire, riuscii a dire», ricorda Puddu. Poi la corsa in camera operatoria: «Era arrivato solo un giornalista, gentile e estremamente sensibile, che mi accompagnò per qualche metro, dal pronto soccorso alla sala operatoria, facendomi le prime domande: quanti erano, come erano vestiti, se avevo riconosciuto qualcuno. Poi seppi che era Ezio Mauro». Al pronto soccorso del Mauriziano s’inizia a capire quello che è successo: «Alle ore 14,30 un gruppo armato delle Brigate Rosse ha colpito alle gambe Maurizio Puddu, un individuo che da anni fa parte della cricca della Dc… in onore del compagno Lo Mussio» è il volantino di rivendicazione che le Br fanno arrivare all’Ansa e ai maggiori quotidiani del Paese. Maurizio Puddu legge con un leggero tremolio della voce quelle parole che, 25 anni fa, spiegarono la sua «condanna»: «Non riesco a disfarmene e non so perché: forse rappresenta il simbolo di quello che ha cambiato la mia vita per sempre». Durante quegli anni – anni di piombo, di contrapposizioni violente, di deliri ideologici – «si aveva paura di uscire di casa», ricorda Puddu. A Torino l’offensiva della Brigate Rosse, affiancate dalla proliferazione di altre sigle – Prima Linea, Comunisti Combattenti, Nuclei Armati Proletari, ad esempio – non faceva che crescere ed intensificarsi: «Ma io non avevo paura – ricorda Puddu -: ero l’ultima ruota del carro, non ero un potente. Mai avrei pensato che avrebbero voluto colpire uno come me. E pensare che mia moglie, a Roma in vacanza, mi chiamò preoccupata la mattina del 13: stai attento, mi disse, che l’11 hanno sparato al direttore del Tg1, ieri al segretario provinciale Dc di Genova. Adesso mica toccherà a te?». Invece tocca proprio a questo mite consigliere torinese della Dc: «Mi hanno gambizzato, sono rimasto un invalido, ma l’assalto ha dato un senso nuovo alla mia vita». Da quel 13 luglio 1977 Puddu si rende conto che il corso della sua esistenza è cambiato: «Ho capito che avrei dovuto assolvere ad un compito ben preciso, quello politico e civile di testimone: allora mi sentii quasi un eroe». I mesi passano lungo una scia spietata di omicidi, ferimenti, rapine, assalti, rapimenti: «Dopo una pausa a Trieste per laurearmi ho continuato la mia attività politica. Quell’attentato, in fin dei conti, ha avuto anche aspetti positivi: se non mi avessero sparato addosso forse sarei stato un tangentaro o sarei sprofondato in ambienti malati: da allora ho perso quell’ingenuità che non mi faceva distinguere tra il bene e il male». Oggi Puddu, oltre a svolgere attività politica, continua a essere un testimone ed è presidente dell’Associazione Italiana Vittime del Terrorismo, alla quale aderiscono 200 soci iscritti in tutta Italia, nella stragrande maggioranza vittime (invalidi o feriti) e superstiti di vittime del terrorismo: vedove, figli, genitori. Ormai molti brigatisti non sono più in carcere: «Io sono per il perdono della cosiddetta “manovalanza”, ma gli altri, quelli che tiravano le fila, devono pagare per quello che hanno fatto, per il dolore che hanno lasciato alle loro spalle». Puddu ha 70 anni, una gamba zoppicante, il ciclostilato delle Br conservato nel portafoglio: «Perché la cosa più importante è ricordare e, allo stesso tempo, tutelare la memoria di chi è morto».

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