L’universitario Crescenzio bruciato dalle molotov lanciate da un corteo

L’universitario Crescenzio bruciato dalle molotov lanciate da un corteo

  • 30 Settembre 2007

Da LA STAMPA del 30/’9/2007

L’universitario Crescenzio bruciato dalle molotov lanciate da un corteo

Roberto Crescenzio sarà ricordato a trent’anni dalla morte mercoledì alle 10,30 al cimitero di Sassi dove è sepolto. Dieci anni fa gli è stata intolata una via vicino a corso Allamano, parallela a via Ciotta. Alla cerimonia, a cui parteciperanno l’associazione vittime del terrorismo e rappresentanti del Comune non ci sarà la madre di Roberto, Elvira, morta in primavera. La donna aveva cercato la verità sulla morte del figlio. Ma una lunga vicenda giudiziaria non ha mai chiarito chi abbia lanciato le molotov contro il bar. All’inizio degli Anni ‘80 Roberto Sandalo, pentito di Prima Linea, espulso da Lc da Della Casa, raccontò confidenze ricevute da altri perchè lui quella mattina non era al corteo. Nell’84 la Corte d’Appello condannò per concorso morale (pene tra i 3 anni e tre mesi e 3 anni e 10 mesi) Angelo Luparia, Alberto Bonvicini, Angelo De Stefano, Stefano Della Casa e Francesco D’Ursi. Peter Freeman fu assolto, come Silvio Viale, accusato solo dell’assalto al msi. S

e la storia di una città si potesse costruire per immagini ce ne sono alcune che dovrebbero star lì, per sempre, nel libro della memoria collettiva. Un ragazzo, Roberto Crescenzio, bruciato. Seduto su una sedia di listelli in plastica blu. Guarda in faccia la propria morte. La vede arrivare riflessa negli sguardi terrorizzati, smarriti, increduli, sconvolti, pietosi di chi gli sta intorno. Morirà realmente due giorni più tardi. Ai suoi funerali ci sono 20 mila torinesi in lacrime. Stretti gli uni agli altri, fitti fitti, operai con gli striscioni, studenti con i quaderni, madri impietrite, autorità mute, ferite. Piove, fa freddo. I fiori delle corone si sfaldano sull’asfalto lucido. Tre ragazzine stringono ciascuna un fiore tra le mani. Incredule come solo possono essere i giovani di fronte alle cose che non capiscono. Era il 1° ottobre di trent’anni fa. Torino stava assaggiando i primi morsi della violenza politica: a marzo i terroristi rossi avevano ammazzato il brigadiere Ciotta, a aprile l’avvocato Croce. E c’erano i feriti: il caporeparto e il funzionario Fiat Diotti e Palmieri, il dc Puddu. E a fine settembre, al culmine di una estate contrappuntata di attentati, il ferimento del giornalista de «L’Unità» Ferrero. Quella terribile mattina di ottobre, un sabato, un corteo neppure troppo grosso, più o meno tre mila ragazzi, torna in piazza: il giorno prima a Roma i fascisti hanno ammazzato Walter Rossi. Il clima è pessimo; i giovani del movimento sono infuriati, addolorati. Sentono Walter Rossi come un morto loro. Cercano vendetta. Non tutti, ovvio. Ma molti vanno in piazza per menare le mani.
L’obiettivo è facile, persino banale: la sede del Movimento sociale di corso Francia. Lanci di molotov, poi via, si torna indietro, verso il centro. Verso Palazzo Nuovo, il parallelepipedo delle facoltà umanistiche dove, da anni, tutto finisce in una catartica assemblea. Ma le cose non vanno così. In via Po, all’angolo con via Sant’Ottavio, sotto gli alti portici, al 46, c’è un bar con un bel nome che evoca sguardi languidi, dive d’antan: Angelo Azzurro. Da tempo nel movimento gira voce che sia un bar di «fasci». La leggenda metropolitana si alimenta di voci, gonfia. Si arriva alla certezza: è un covo nero. In realtà nel locale – che ha una piccola discoteca ed è gestito da una coppia di sinistra – aveva festeggiato il compleanno un militante di ultra destra. Ma tanto basta. D’altronde, come racconta con amarezza mai sopita uno dei protagonisti di quella drammatica giornata, «il Sessantotto era il movimento dei primi della classe, il ‘77 degli ultimi». E così dal corteo, ormai stanco e prossimo alla meta, partono le molotov. Il rogo è violento. Irriducibile. Tutti fuggono. Roberto Crescenzio no. E’ nel bagno. Lo fiamme lo avvolgono. Esce da solo. Parla. E’ lucido. Lo rimarrà fino alla morte due giorni più tardi. Ancora al Cto si sforzerà di sorridere ai genitori Giovanni e Elvira: «State tranquilli; prenderò la laurea». E’ al terzo anno di Chimica, lavora, ha una ragazza, Meri. Una vita normale, assolutamente normale. E’ nel bar per caso. Quella morte «per caso» sconvolge la città. In via Po si accumulano i fiori; la gente passa, guarda e piange. I ragazzi della Fgci raccolgono 20 mila firme contro la violenza, il sindacato proclama un quarto d’ora di sciopero durante i funerali. Si può morire bruciati come un monaco vietnamita a 22 anni per caso? La domanda grava sui cuori dei torinesi e finalmente si insinua nel movimento. Pietro Marcenaro ha già 31 anni, era stato un leader di Lotta Continua, ma Lc si è sciolta nel ‘75. Sopravvive il quotidiano e d’impulso Marcenaro scrive per quel giornale un articolo destinato a aprire le menti a un dibattito profondo. Un interrogarsi collettivo che forse ha «salvato» qualche ragazzo dal finire del gorgo della violenza. Marcenaro scrive che la morte di Crescenzio «è pesante come una montagna». E senza dice l’indicibile: «Esiste una responsabilità che riguarda noi, come movimento e come organizzazioni politiche, che deve essere affrontata». La ferita è profonda e sta tutta nelle sue dure parole: «Un movimento che si vuole comunista, che lotta contro il potere per affermare le ragioni della vita, non può, se non vuole decretare la sua fine, vedere un ragazzo bruciato vivo e passare oltre; quasi si trattasse di una cosa in qualche modo normale, di un imprevisto sempre possibile, o peggio di un errore tecnico». E’ un macigno gettato nella stagno del conformismo che aleggia sul movimento, dell’idea che la violenza sia giusta, che stare in piazza con molotov e armi sia rivoluzionario. La sua non resta una voce isolata; a Lotta continua arrivano decine di lettere di militanti. Donatella, ad esempio, lo dice chiaro: «Ho odiato gli assalitori di quel bar più dei fascisti». Un gruppo di madri, operai, studenti scrivono una lettera lapidaria: «Centomila persone in piazza non valgono neppure un pelo di un innocente ucciso».
Quel delitto orrendo pesa sulle coscienze, ripugna. Sarà anche per questo, forse, che a trent’anni di distanza ancora non si sa chi abbia materialmente lanciato le molotov che hanno ucciso. Non lo chiariscono anni di indagini, non il processo a un gruppo di militanti accusati di concorso morale, e meno ancora i sentito dire di un pentito, Sandalo, che quel giorno non c’era.
E’ così orribile pensare di aver ammazzato con il fuoco «per caso» che nessuno mai – neppure nella ciarliera stagione delle rivendicazioni, delle confessioni, delle giustificazioni individuali o collettive – ha avuto il coraggio di dire: «Sono stato io».

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