LETTERA DEL PRESIDENTE AIVITER AL PROF. ORSINI

LETTERA DEL PRESIDENTE AIVITER AL PROF. ORSINI

  • 12 Gennaio 2017

Dal blog dell’editore Rubettino

“le narrazioni delle vittime sono indispensabili per fondare l’analisi del terrorismo su basi scientifiche”

Lettera del Presidente dell’Associazione Italiana Vittime del Terrorismo

Caro Alessandro Orsini,

Vorrei esprimerle il mio apprezzamento per le sue importanti ricerche sul terrorismo che abbiamo potuto conoscere a Torino quando, intervenendo al nostro Convegno internazionale dello scorso novembre, ha parlato del Suo libro sulle Brigate Rosse, meritando e suscitando un’attenzione particolare da parte nostra.
Vorrei altresì ringraziarla per aver accettato di collaborare al gruppo di lavoro “La Voce delle Vittime” che la nostra Associazione sta attivando su richiesta della Direzione Generale Affari Interni della Commissione Europea.
A questo proposito vorrei ricordarle che, nelle polemiche quasi quotidiane che imperversano sui media relative a vicende di terrorismo passate e presenti, spesso perdura il silenzio che circonda le nostre storie e il nostro dolore di vittime.
Dolore che viene rinnovato ed amplificato dalla visibilità mediatica, e talvolta dalla completa impunità, di cui godono alcuni terroristi: quelli irriducibili. La verità che occorre ogni tanto ricordare è che i terroristi non sarebbero così noti se non avessero ucciso. È alle loro vittime che devono il loro successo. Ma questo paradosso, nella maggioranza dei casi, continua a non imbarazzarli minimamente.
Da parte nostra, incapaci di coltivare qualsiasi sentimento di vendetta, la missione è ben chiara: trasformare il nostro dolore in una voce di speranza che – forte o flebile che sia – possa contribuire a costruire, soprattuto verso i giovani, una pedagogia della tolleranza, basata sul rispetto della vita e del confronto democratico, libero e non violento.
Con viva cordialità.

Avv. Dante Notaristefano, presidente Aiviter

Risposta di Alessandro Orsini

Caro Presidente dell’Associazione Italiana Vittime del Terrorismo,
la Sua lettera impone agli studiosi che si occupano di terrorismo di confrontarsi con il loro ruolo di educatori, oltre che di scienziati sociali. Su questo punto, non vi possono essere ipocrisie: l’insegnamento della sociologia presuppone un fascio di principi educativi che gli studenti sono tenuti ad accogliere prima di entrare in aula. Proprio all’ingresso della Facoltà di Sociologia di Roma “La Sapienza”, compare un’epigrafe che recita: “Questa Facoltà ripudia ogni forma di fascismo e di razzismo”.
Il sociologo deve astenersi dal pronunciare giudizi di valore quando cerca di comprendere le motivazioni che hanno ispirato l’azione dell’uomo fascista o del razzista. Questo è certo. Tuttavia, l’impresa sociologica – tale è il significato dell’epigrafe − presuppone l’istituzionalizzazione della pedagogia della tolleranza, che trova uno dei suoi pilastri fondamentali nel ripudio della violenza come mezzo per affermare le proprie idee.
Ebbene, la cultura politica brigatista, che indica nell’omicidio politico la via maestra per imporre la concezione comunista del mondo, non è compatibile con l’etica della scienza. Roberto Ruffilli, professore di Scienza politica, fu ucciso perché le sue idee sulle riforme istituzionali non piacevano ai brigatisti rossi. Il 16 aprile di ventiquattro anni fa, due brigatisti travestiti da postini suonarono alla porta di casa di Ruffilli, lo trascinarono nel suo studio, lo costrinsero a inginocchiarsi mentre disperatamente si dimenava, e gli spararono tre colpi in testa (1988). Ruffilli fu ucciso dopo essere rientrato a casa da un convegno di studi. Massimo D’Antona fu ucciso mentre si recava a piedi all’Università per svolgere i suoi doveri di professore. Fu ucciso proprio davanti alla Facoltà di Sociologia, il 20 maggio 1999, perché i brigatisti rossi non condividevano le sue idee sulle politiche del lavoro.
Il brigatista rosso, uccidendo, estingue per sempre la libertà di esprimersi della sua vittima e priva altre persone della libertà di parola, terrorizzandole. Lottare per una società più libera, privando gli altri della libertà di esprimersi: nessun brigatista rosso è mai riuscito a sciogliere questa contraddizione.
La voce delle vittime è indispensabile nello studio sociologico del terrorismo perché soltanto le vittime sono in grado di descrivere il tipo di azione in cui culmina la pedagogia dell’intolleranza. Attraverso il ricordo delle frasi e dei gesti dei terroristi, le vittime ci aiutano a ricostruire le categorie cognitive attraverso cui i brigatisti rossi e i brigatisti neri definiscono la realtà e il rapporto con l’altro. Ecco perché, da studioso del terrorismo, ho accolto l’invito a partecipare al gruppo di lavoro “la voce delle vittime” che la Sua associazione sta attivando su richiesta della Commissione Europea. Nella mia prospettiva di ricerca, le narrazioni delle vittime sono indispensabili per fondare l’analisi del terrorismo su basi scientifiche.
Per dare concretezza al mio discorso, ricordo l’irruzione di un gruppo di terroristi rossi di Prima Linea in un istituto pieno di studenti, che ho potuto ricostruire intervistando una vittima del terrorismo. Questa testimonianza, sottoposta ai dovuti riscontri e con l’ausilio di altre fonti, ci aiuta a comprendere l’universo mentale di coloro che ho proposto di chiamare i “purificatori del mondo”.
Era l’11 dicembre 1979, quando dodici terroristi rossi occuparono l’Istituto di Amministrazione Aziendale di Via Ventimiglia a Torino, tra le 15 e le 15,45. Quasi duecento ostaggi − tra studenti, professori e personale non docente − furono radunati nell’aula magna per ascoltare queste parole: “Bravi coglioni, bella scuola di merda frequentate! Noi siamo venuti per punire il vostro desiderio di studiare per diventare classe dirigente e godervi gli agi della società borghese”. Terminato il proclama rivoluzionario, misero al muro cinque studenti e cinque professori e spararono due colpi di pistola nelle gambe di ognuno. Andarono via minacciando di morte tutti coloro avessero perseverato negli studi.
È soprattutto ricostruendo le cosiddette uccisioni “minori”, e ascoltando le narrazioni delle vittime sopravvissute, che noi possiamo comprendere il terrorismo come prassi quotidiana. Per lo studioso che si richiami alla prospettiva teorica di Raymond Boudon, il problema rimane quello di comprendere le motivazioni che hanno ispirato l’azione del terrorista. Un’impresa sociologica che non può essere condotta proficuamente senza tenere in considerazione le narrazioni delle vittime: le uniche ad avere osservato ciò che i terroristi concretamente facevano.

Alessandro Orsini

 

In ottemperanza alle disposizioni nazionali relative alle norme da adottare per il contenimento del coronavirus si informa che la Segreteria operativa di Aiviter resterà chiusa sino al  31 marzo  2022

Durante il periodo di chiusura l’attività della nostra Associazione continuerà seppur a regime ridotto.

Per coloro che necessitano di contattarci per urgenze preghiamo indirizzare al nostro recapito mail  info@vittimeterrorismo.it  sinteticamente le richieste e segnalando anche un  contatto telefonico.