L’11 marzo si è svolto a Bruxelles il convegno “Il ruolo delle vittime del terrorismo nella prevenzione del radicalismo violento”, organizzato dalla Rete Europea delle Vittime del terrorismo e dalla Commissione Europea nel quadro della settima Giornata Europea introdotta dall’Europarlamento nel 2004. L’appuntamento è stato al Centre Conference Albert Borschette
Room 0D – Rue Froissart 36 – B-1049 Brussels, a partire dalle ore 9,30 dell’11 marzo.
AIVITER ha partecipeto con una delegazione composta da: Enrico Boffa, Giampaolo Giuliano, Rita ed Annamaria Scaglia, Luca Guglielminetti e Luciano Borghesan.
Video di commemorazione presentato in apertura dei lavori.
La delegazione Italiana
L’intervento di Aiviter
Il ruolo delle vittime del terrorismo nella prevenzione della radicalizzazione che conduce al terrorismo: l’esperienza italiana
Il titolo del tema su cui oggi riflettiamo, contiene già in sé due assiomi. Il primo, implica che le vittime del terrorismo possano avere un ruolo nello svolgere un’azione positiva, quella di prevenire.
La prevenzione in questione, il secondo assioma, riguarda un fenomeno, il terrorismo, che viene ricondotto ad una causa principale: la radicalizzazione.
Se questi due assiomi sono veri, io credo sia importante sottolineare subito due aspetti che non sono affatto scontati.
Il primo. Dobbiamo tenere presente che la possibilità da parte delle vittime del terrorismo di esprimere un’azione positiva, nasce dal fatto che, in Italia, come in altri paesi europei, queste non si sono mai espresse per chiedere vendetta. Non sono cioè un gruppo che ha istigato una catena di sangue, come quella che si è creata nelle guerre etniche della ex Jugoslavia, o che abbia mai reclamato di perseguire il terrorismo in modi diversi da quello della piana e corretta applicazione della legge.
In altre parole, da parte delle vittime del terrorismo si è fatta propria la stessa ottica di cui scriveva Primo Levi in relazione alle vittime dell’Olocausto verso i loro carnefici: “Né perdono, né vendetta, ma giustizia”.
Sul secondo assioma, sappiamo certamente che la radicalizzazione dei conflitti di natura politica, sociale, religiosa, etnica e nazionalistica, è una sconfitta del dialogo, del confronto pacifico, democratico e pluralista. Una sconfitta che conduce all’utilizzo della violenza nella sua versione tradizionale, la guerra, o nella sua variante ‘a bassa intensità’, il terrorismo.
E’ altresì evidente, però, che la mancata risoluzione di conflitti per via pacifica, al di là della loro natura, risiede in un solo contesto: quello della politica. Cioè in quell’ambito che per definizione è predisposto alla mediazione e alla risoluzione dei conflitti. Credo cioè si possa dire che tanto le guerre che i terrorismi, sono sempre dei fallimenti della politica. Da questo deriva un duplice ruolo delle vittime: da un parte vittime di chi ha materialmente eseguito l’atto di violenza, dall’altra, ‘vittime’ di un fallimento politico.
Questo è un elemento importante da tenere in seria considerazione perché assegna allo status di vittima una posizione politica delicata. Tra i suoi effetti c’è infatti quello che conduce ad un rapporto perlomeno di reciproco disagio, tra le istituzioni e la politica di uno Stato, da un lato, e i suoi cittadini che sono stati colpiti dal terrorismo, dall’altro.
In Italia questo disagio da parte dello Stato si è palesato in molte forme: ne cito alcune prima di passare ad esporre quegli atti positivi compiuti dalla vittime italiane che ci auguriamo possano essere un modello, o delle best practices, per il lavoro futuro a livello europeo.
L’Italia ha avuto il primo attacco terroristico nel 1969, a Milano con la bomba di Piazza Fontana, cui sono seguite altre stragi di matrice fascista e l’insorgere di un terrorismo comunista che ha raggiunto il culmine nella seconda metà degli anni ’70, per finire il decennio successivo: un totale di oltre 400 morti e migliaia di feriti. Ha poi avuto vittime del terrorismo internazionale, dal primo caso del 1973, per mano di organizzazioni arabo-palestinesi, fino alle più recenti, per mano della Jihad islamica.
Le vittime del terrorismo, organizzandosi in associazioni, hanno dovuto lottare e aspettare il 2004 per ottenere una legge organica di riconoscimento dei loro diritti, così come hanno dovuto lottare e aspettare il 2007 per avere una commemorazione ufficiale da parte della nostra Repubblica, con l’introduzione di una giornata della memoria, analoga a quella di oggi. Parliamo quindi di riconoscimenti di diritti da parte dello Stato Italiano verso i suoi cittadini vittime del terrorismo, che hanno avuto luogo a distanza di decenni dai fatti. Diritti che proprio in quanto tardivi per alcuni non sono risultati tali, essendone sopravvenuta la morte. Diritti tardivamente riconosciuti da un uno Stato che continua ancora a manifestare la propria ambiguità agendo con lentezza e pesantezza burocratica e rendendo irto di ostacoli e lungo nei tempi l’iter di acquisizione dei diritti delle vittime.
Questa premessa è apparsa indispensabile per comprendere almeno parzialmente le difficoltà riscontrate dalle vittime, i superstiti e i loro famigliari in Italia, e quindi giustificare come le azioni positive abbiano avuto luogo, a loro volta, spesso con notevole ritardo rispetto allo svolgimento dei fatti.
A queste azioni positive che dovrebbero prevenire la radicalizzazione che conduce al terrorismo, è giunto ora il momento di dare un nome. Ne individuo tre, concatenati tra loro: memoria, verità, dialogo.
Più esattamente: fare memoria per cercare una verità condivisa attraverso il dialogo. Un’attività quindi che ha un sapore didattico e una valenza politica, alla quale possiamo infatti far precedere il verbo “educare”, il quale, a sua volta, nella accezione socratica di maieutica, può forse ben sintetizzare l’essenza dell’azione preventiva delle vittime del terrorismo.
Il primo termine: la memoria. Tzvetan Todorov ci ricorda che la base di ogni ricerca storica è la sistemazione curata e completa dei fatti, come il “Memoriale dei deportati ebrei” redatto in Francia da Serge Klarsfedl che documenta con estrema semplicità i nomi, i luoghi, le date di nascita. Questa attività risponde innanzitutto a una prima necessità: restituire dignità a tutte le vittime. Questo lavoro, il primo passo del lavoro storico, in Italia è stato avviato dalle vittime, da Aiviter nel 2001 quando ha incaricato chi vi parla di redigere delle schede di memoria di tutte le singole vittime, da pubblicare sul sito internet allora in costruzione. Il lavoro, completato nel 2008, è terminato in occasione della pubblicazione da parte dalla Presidenza della Repubblica Italiana del volume “Per le vittime del terrorismo nell’Italia repubblicana”.
Analogo lavoro è stato avviato di recente per le vittime italiane del terrorismo internazionale che contiamo di condurre a termine, con la collaborazione di un grande quotidiano italiano, La Stampa, per il 10° anniversario degli attentati dell’11/9 che ricorre quest’anno. Ricordo, di passaggio, che nelle Twin Towers persero la vita oltre 270 cittadini italoamericani.
L’attività di memoria si svolge anche, e soprattutto, con un’azione attiva delle vittime: la testimonianza. Sempre Todorov ci insegna che quando gli avvenimenti vissuti dall’individuo o dal gruppo sono di natura eccezionale o tragica, il diritto di ricordare e di testimoniare diventa un dovere. Un dovere al quale le vittime del terrorismo raramente si sottraggono nelle scarse occasioni loro offerte.
Anche in questo caso, in Italia, la prima cifra di queste testimonianze è il ritardo. Sono rari i casi in cui la loro testimonianza si è espressa, ad esempio, attraverso la pubblicazione di libri, nell’immediatezza temporale dei fatti. Sono invece molti i casi che si sono succeduti dopo il 2004, quando i figli delle vittime hanno preso la penna in mano. In questa lunga parentesi di tempo, non è invece mancata una vasta pubblicistica di testimonianza da parte degli ex terroristi, molti dei quali sono a tutt’oggi inseriti in attività editoriali.
A questo proposito, e vengo al secondo termine, va subito precisato che se risulta con evidenza assai sospetta la verità rivelata da un ex terrorista, anche quando questo si fosse pentito o dissociato dalla sua precedente attività omicida, pure l’attività di testimonianza delle vittime ha dei limiti verso la verità. E’ sempre Primo Levi che ci insegna che non spetta alle ex vittime di capire i propri assassini.
Il valore delle testimonianze delle vittime, in relazione alla necessità di fornire senso ai fatti, di svelarne la verità, risiede infatti nel terzo termine: il dialogo. La verità si svela cioè quando la testimonianza della vittima diventa dialogo con qualcuno che interroga o interagisce. Si tratta dunque di una pratica intersoggetiva e non referenziale, non lontana dal dialogo socratico.
Una pratica attiva di confronto che risponde, inoltre, a quel bisogno sociale diffuso che non si accontenta della giustizia, cioè di punire, ma che vuole scoprire perché il crimine è stato commesso e da quali cause sia stato generato per cercare di prevenirne altri.
Il discorso, il verbo, la parola della vittima-testimone sono quindi una fonte, che con altre sono interrogate da chi fa ricerca. Solo di recente, negli ultimi mesi, alla nostra Associazione sono pervenute tre richieste di svolgere delle interviste alle vittime da parte di ricercatori o docenti universitari di altrettante discipline: il diritto e la politica internazionale, la storia del terrorismo italiano, la letteratura sugli anni del terrorismo in Italia.
E’ la prima volta che questo accade e probabilmente, non a caso, con ricercatori italiani che lavorano fuori dal nostro paese (l’italica accademia soffre evidentemente come la politica di analogo disagio verso le vittime). Non è però è la prima volta che la testimonianza delle vittime del terrorismo si è espressa in pubblico, in mezzo ad un dialogo. Questo è successo, seppur in modo sporadico e discontinuo, da molto tempo, allorché singole istituzioni o scuole hanno proposto incontri e dibattiti in cui si chiedeva la presenza e la testimonianza delle vittime.
Aiviter si è quindi dotata nel corso del tempo di sempre maggiori e più sofisticati strumenti didattici ed informativi, a supporto delle testimonianze dirette dei suoi soci nelle diverse occasioni di confronto: la pubblicazione degli atti del primo convegno organizzato a Torino nel 1986, una prima mostra “Per non dimenticare” realizzata nel 1989, cui sono seguiti altri atti di convegni, altre mostre, pubblicazioni di libri, il sito internet, un documentario e un cdrom multimediale.
Questa attività di memoria documentata e di testimonianza che Aiviter sta cercando ora di rendere sempre più sistematica e continuativa, soprattutto con le scuole italiane, è quella parte di lavoro, tra gli scopi sociali statutari dell’Associazione, che svolge un ruolo di prevenzione. Prevenzione che si concretizza in attività di educazione. Educazione che non è astratta ricerca di pace, e neppure fissata commemorazione di fatti tragici, ma dinamico e concreto disvelamento di verità. Verità che sono anche politiche e storiche, oltre che morali, quindi talvolta anche assai scomode, ma certamente indispensabili affinché la società civile possa condividere il senso delle ferite che il terrorismo ha inferto al suo corpo.
Il terrorismo è quindi una sequenza agghiacciante di attacchi violenti ed indiscriminati che deve trasformarsi, con la testimonianza, la ricerca e il dialogo, in un patrimonio sociale condiviso di esperienza utile a prevenirne il ripetersi.
Non posso non concludere riconoscendo, senza alcuna piaggeria verso la Commissione che qui ci ospita, che parte del lavoro di Aiviter e della riflessione che ho sottoposto alla vostra gentile attenzione, deve un tributo all’Europa, al suo Parlamento e alle sue istituzioni, che già all’indomani degli attacchi terroristici di Madrid del 2004, si sono mobilitati moralmente e impegnati in politiche concrete a favore di tutte le vittime europee del terrorismo.
Luca Guglielminetti, per l’Associazione Italiana Vittime del Terrorismo