Gli effetti politici del terrorismo.
L’esperienza spagnola
Esattamente un anno fa, un attentato alla stazione di Atocha di Madrid provocava oltre duecento morti ed un numero enorme di feriti. Si trattava dell’attentato più grave verificatosi in Europa da molto tempo, con un impatto tremendo sull’opinione pubblica. Vorrei aprire il mio intervento con un ricordo commosso e un’espressione di rispetto nei confronti di queste vittime del terrorismo.
L’attentato di Madrid dell’11 marzo 2004 fu commesso tre giorni prima delle elezioni politiche in Spagna, in piena campagna elettorale. Una campagna elettorale profondamente segnata dal problema del terrorismo. Il Partito Popolare, allora al governo, presentava fra i suoi principali punti di forza per la campagna elettorale la fermezza mantenuta di fronte al terrorismo dell’ETA, contrapponendola alla presunta posizione morbida adottata dagli avversari socialisti. Per ragioni relativamente complesse di politica interna, il Partito Popolare accusava il Partito Socialista di tenere una posizione poco ferma nei confronti dell’ETA e di non valutare nella sua giusta dimensione la minaccia rappresentata dall’organizzazione terroristica, nella cui ideologia si combinano estrema sinistra e indipendentismo basco radicale. Nella campagna elettorale del Partito Socialista, invece, l’argomentazione più forte, più importante, era rappresentata dall’accusa al governo del Partito Popolare e di José María Aznar di avere assecondato l’iniziativa statunitense che aveva portato alla guerra in Iraq e di avere per questo collocato la Spagna in prima linea nello scontro con il mondo arabo e il mondo musulmano. Il Partito Socialista, tutt’altro che favorito in queste elezioni, riteneva che la sua unica opportunità elettorale fosse mobilitare tutti coloro che avevano manifestato a suo tempo contro la guerra in Iraq, estremamente impopolare tra i cittadini.
Se, in occasione dell’anniversario dell’attentato dell’11 marzo e in un incontro dedicato alle vittime del terrorismo, mi sono permesso di aprire il mio intervento con questo riferimento al clima politico della Spagna di un anno fa, è perché ho la sensazione che questo clima spieghi un fatto insolito ed estremamente inquietante verificatosi quell’11 marzo e che ritengo sia collegato direttamente con il tema di oggi. In un primo momento, un anno fa, quando giunse la notizia dell’attentato, la prima reazione di tutti fu di dolore e di condanna. Tuttavia, forse perché eravamo nel pieno della campagna elettorale, ben presto alcuni settori politici e giornalistici iniziarono a fare calcoli sugli effetti che avrebbe prodotto l’attentato sulle elezioni di tre giorni dopo. In una prima fase, tutti diedero per scontato che l’attentato fosse opera dell’ ETA: era il terrorismo di sempre, nelle settimane precedenti erano stati lanciati allarmi sulla possibilità di un grave attentato, anche se esistevano incongruenze tra la strage di Madrid e la strategia dell’ETA. Durante questa fase, il commento generale fu che l’attentato dell’ETA avrebbe consegnato la vittoria a maggioranza assoluta al Partito Popolare alle elezioni del giorno 14. Un dirigente socialista mi diceva, la mattina stessa dell’attentato, che l’ETA aveva regalato la maggioranza assoluta al Partito Popolare. Tuttavia, poche ore più tardi cominciò a farsi strada il sospetto di un attentato di matrice islamica. E questo sospetto non favoriva più politicamente il governo, bensì l’opposizione. La tesi era che se i terroristi islamici avevano agito contro la Spagna, a Madrid, era perché il governo di Aznar, aderendo all’iniziativa statunitense, aveva posto la Spagna nel mirino e l’aveva trasformata in un obiettivo dei terroristi.
Il fatto insolito e inquietante fu che, per molte ore del giorno undici, nelle quali ancora non esistevano indizi attendibili sulla responsabilità degli attentati, quando ancora si soccorrevano i feriti e si contavano i morti, si scontrarono due interpretazioni dell’attentato terroristico fondate su criteri politici. Si scontrarono settori politici e mediatici che, ancora senza prove, sostenevano con insistenza che si era trattato di un attentato dell’ETA e settori politici e mediatici che, anch’essi senza alcun tipo di prova, sostenevano l’ipotesi di un attentato di matrice islamica. In quegli istanti, entrambe le conclusioni erano altrettanto aprioristiche. Non erano due interpretazioni fondate su prove o su quanto realmente si sapeva degli attentati. Erano due interpretazioni formulate in funzione di calcoli elettorali, di interessi elettorali. Detto in modo molto crudo: ad alcuni conveniva che fosse un attentato dell’ETA, ad altri che fosse un attentato di matrice islamica. Di certo, la stragrande maggioranza della popolazione, dei media e della classe politica espressero innanzitutto dolore e indignazione. Ma una minoranza dei media e dei politici avviarono immediatamente una polemica aspra e carica di pregiudizi sui possibili responsabili dell’attentato. Chi sosteneva fosse un attentato dell’ETA definiva pubblicamente “miserabili” coloro che suggerivano la matrice islamica, mentre questi definivano gli altri “bugiardi”. Tutto questo in un momento nel quale ancora non esistevano prove per difendere un’interpretazione piuttosto che un’altra, ma soprattutto per escludere totalmente l’interpretazione alternativa. Alcuni giorni dopo, le prove e le indagini si indirizzarono verso il terrorismo islamico, ma alcuni media ed esponenti politici avevano deciso con largo anticipo chi dovessero essere i colpevoli. Non in funzione di indizi e prove, bensì delle necessità politiche, della convenienza politica. Questi esponenti politici e mediatici cercarono i colpevoli che ritenevano fossero loro più utili, e scagliarono contro di questi il dolore delle vittime.
Se durante un incontro sulle vittime del terrorismo vale la pena ricordare la situazione insolita venutasi a creare l’11 marzo in Spagna non è per accusare media o politici. Si tratta della concretizzazione estrema di un rischio più generale che, rispetto alle vittime del terrorismo si verifica in Spagna e al di fuori della Spagna: il valore politico delle vittime del terrorismo e del loro dolore varia in funzione dell’ideologia dei terroristi, in funzione della natura della causa in nome della quale questi terroristi hanno agito. Il dolore delle vittime non ha un valore di per sé, assoluto, ma acquisisce un valore relativo in funzione dell’ideologia in nome della quale sono state attaccate. Qualcosa che non ha nulla a che vedere con le vittime. Qualcosa che è loro totalmente estraneo. Le vittime dell’11 marzo di Madrid non poterono mai sapere in nome di cosa venivano assassinate. Se era l’ETA o il terrorismo islamico. Erano persone anonime, che avevano preso il treno semplicemente per andare al lavoro, che sono divenute vittime per il solo fatto di vivere in Spagna e avere preso un treno. Che quindi non avevano un colore o una fede politica in particolare. Ma la quotazione politica, per così dire, della loro morte, veniva a dipendere da qualcosa che era loro assolutamente estraneo: l’ideologia dei loro boia. Dal punto di vista delle vittime del terrorismo, il caso dell’11 marzo a Madrid ci rimanda, a mio modo di vedere, ad una considerazione di base e ad un problema più generale. L’Europa ha valutato in modo diverso le azioni terroristiche in base alla causa alla quale erano votati i terroristi. La prima considerazione personale sarebbe, al contrario, di rivendicare il valore assoluto del dolore delle vittime, senza che nulla di esterno possa servire a relativizzarlo. Che le vittime dei terrorismi da noi ritenuti ideologicamente più vicini o comprensibili non possano sembrarci meno vittime di coloro che sono morti o sono stati colpiti da terrorismi votati a cause che ci appaiono più lontane od odiose. L’ideologia dei terroristi non è una variabile per giudicare né la moralità del terrorismo – sempre nulla – né il dolore delle vittime.
Il caso del terrorismo in Spagna, sia per quanto riguarda il terrorismo dell’ETA, sia il terrorismo di matrice islamica, è anche fonte di esempi e riflessioni utili per sottolineare un problema più generale, una delle più grandi perversità legate al terrorismo: il terrorismo trasforma le vittime in colpevoli o perlomeno in sospetti di colpevolezza. Cominciamo con il caso dell’ETA. Quest’organizzazione terroristica iniziò ad operare negli anni Sessanta, in piena dittatura franchista. Una delle sue prime azioni fu l’assassinio di Melitón Manzanas, capo della brigata politico-sociale della polizia franchista di San Sebastián e presunto responsabile di torture e maltrattamenti. I primi attentati dell’ETA ebbero come obiettivo poliziotti e militari identificati con il regime franchista e l’azione più eclatante fu, già negli anni Settanta, l‘assassinio di Luis Carrero Blanco, braccio destro e possibile successore del generale Franco. Tutto ciò creò un’immagine pubblica secondo la quale l’ETA sarebbe stata una specie di mano vendicatrice e che le sue vittime, in fondo, lo erano perché in qualche modo colpevoli. In altre parole, per l’opinione pubblica, l’ETA uccideva chi se lo meritava. Forse la vittima non meritava la morte, ma non era nemmeno innocente. Aveva una qualche colpa. Forse, secondo l’opinione pubblica, l’azione dell’ETA non era proporzionata a questa colpa, ma in fondo la vittima era colpevole.
Con il passare del tempo, l’ETA estese le sue azioni ad altre persone ed altri ambiti. Uccise politici democratici, conservatori, socialisti o nazionalisti baschi; assassinò membri dell’amministrazione autonoma basca, in alcuni casi nazionalisti o addirittura indipendentisti baschi; assassinò poliziotti e militari andando semplicemente alla caccia di chi indossava una divisa; assassinò addirittura ex membri dell’ETA che si erano pentiti. E, soprattutto, assassinò semplici cittadini, senza dubbio innocenti, in attentati indiscriminati. Ad esempio, in Catalogna, collocò una bomba nell’interrato di un grande magazzino uccidendo varie decine di persone. L’attentato di Barcellona, l’attentato di Hipercor, fece sì che molte persone che si erano dimostrate comprensive con il terrorismo dell’ETA quando credevano avesse obiettivi ben definiti e rispondenti ad una certa idea di giustizia, ne prendessero nettamente le distanze. Ma in un certo modo è persistito, più o meno sotterraneo, il ricordo dei messaggi iniziali dell’ETA. Se l’ETA lo ha ucciso, un motivo ci sarà. Non sappiamo perché, ma un motivo ci sarà. La vittima diventa quindi un sospetto. Si proietta su di lei l’ombra della colpa. Il terrorista, secondo questa visione, diventa braccio esecutore – per quanto cieco e smisurato – di una giustizia atavica e radicale. Il terrorista non è responsabile. La vittima è responsabile.
Nel caso del terrorismo islamico il fenomeno è abbastanza diverso, anche se presenta delle analogie di fondo. In questo caso le vittime, agli occhi di alcuni, non espiano – come l’agente Melitón Manzanas – una colpa individuale, bensì una colpa collettiva, della quale in un modo o nell’altro sono partecipi, anche se involontariamente. Secondo una certa mentalità occidentale, in fondo il terrorismo islamico ci starebbe restituendo una parte del male che abbiamo commesso. Ritorno all’esempio dell’11 marzo a Madrid. Quando iniziò a farsi strada l’ipotesi di un attentato di matrice islamica, la reazione di una parte importante della popolazione fu di attribuire al governo di José María Aznar la responsabilità dell’attentato. Il 12 marzo partecipai a Barcellona alla manifestazione di ripulsa contro gli attentati. Si trasformò in una manifestazione contro il governo. Il governo era responsabile degli attentati. Il governo aveva posto i cittadini nel mirino del terrorismo islamico, alleandosi con gli Stati Uniti nella guerra in Iraq. I terroristi, come accadeva nel caso dell’ETA, erano percepiti come la mano cieca e sproporzionata di una certa idea di giustizia. I terroristi non erano responsabili. Lo era il governo. Lo eravamo, in un certo senso, tutti noi. Le vittime erano depositarie di una certa colpevolezza collettiva, a causa dell’atteggiamento dell’Occidente nei confronti dell’Oriente, a causa della partecipazione della Spagna alla guerra in Iraq – peraltro molto ridotta -, a causa dei mali storici del colonialismo europeo nel Terzo Mondo… In modo seppure diverso rispetto a quanto indicavamo nel caso dell’ETA, anche in queste circostanze le vittime diventavano sospetti. I terroristi diventavano il braccio neutro della giustizia. Il terrorista non appariva come il volto del male, bensì quasi come un fenomeno meteorologico, una forza della natura, che restituiva ai colpevoli, individuali o collettivi, le conseguenze della loro colpa.
A mio parere, questo è uno degli effetti più perversi del terrorismo: la colpevolizzazione diretta o indiretta delle vittime. I terrorismi che sono stati e sono presenti in Spagna non sono un’eccezione e una rarità, bensì l’esempio particolarmente chiaro di un fenomeno generale. Qualcosa avrà fatto, la vittima, per diventare vittima. Qualcosa avremo fatto, noi, tutti noi, per trasformarci in obiettivo dei terroristi.
L’esperienza spagnola del terrorismo offre un altro tema di riflessione di fondo, che ritengo possa essere applicato anche a realtà al di fuori della Spagna. Una questione che riguarda soprattutto il terrorismo dell’ETA che, come dicevamo, si presenta con obiettivi politici da un lato di sinistra radicale, diciamo insurrezionalista, e dall’altro come l’espressione dell’indipendentismo basco. L’ETA si è presentata tradizionalmente come una sorta di esercito guerrigliero dei Paesi Baschi, contro lo stato spagnolo che considera un oppressore. Ma i Paesi Baschi indipendenti che propugna, comprendenti territori dello Stato spagnolo e dello Stato francese, sono uno stato socialista. Il discorso pubblico di tutte le forze democratiche, comprese le forze politiche nazionaliste basche o anche l’indipendentismo politico, parte dal presupposto che il terrorismo è perverso come metodo, soprattutto nel momento in cui tutti gli obiettivi politici possono essere difesi liberamente all’interno di un contesto democratico. La condanna dell’ETA quindi deriverebbe dal fatto che l’organizzazione terroristica si serve della violenza, non dalla rivendicazione dell’indipendenza per i Paesi Baschi, né dall’aspirazione a realizzare una società socialista. Vi sono metodi terroristici, non obiettivi terroristici. Ma nella pratica ci rendiamo anche conto che – a ragione o a torto – il terrorismo finisce, agli occhi di alcuni settori, per contaminare gli obiettivi. Le forze politiche indipendentiste si trovano in difficoltà rispetto al loro obiettivo indipendentista, perché viene a coincidere con uno degli obiettivi che l’ETA cerca di imporre con il terrorismo. Se il problema del terrorismo, come diciamo tutti nel discorso pubblico, è dato dall’inaccettabilità del metodo e non degli obiettivi, tutti legittimi se difesi democraticamente, la conclusione dovrebbe essere un’impermeabilità totale tra la valutazione dei metodi e quella degli obiettivi. In altre parole, il terrorismo non dovrebbe contaminare né delegittimare alcun obiettivo politico. L’indipendenza dei Paesi Baschi dovrebbe essere considerata un obiettivo politico legittimo, se difeso con metodi legittimi. Ma vale anche il contrario: una causa giusta o nobile non può rendere accettabile il terrorismo. Non potremmo accettare di comprendere il terrorismo perché si fa scudo di una causa giusta e condivisibile.
Nel caso spagnolo, questo implica delle conseguenze per le due forme di terrorismo che abbiamo vissuto negli ultimi anni. Rispetto al terrorismo dell’ETA, la necessità di distinguere tra i metodi terroristici dell’organizzazione e gli obiettivi indipendentisti o di sinistra che possono avere diversi partiti politici democratici nei Paesi Baschi o in tutta la Spagna; la necessità di condannare il terrorismo dell’ETA senza per questo delegittimare la difesa democratica dei suoi obiettivi. Al contrario, la fine del terrorismo dell’ETA deve essere legata alla convinzione generale secondo la quale proprio la causa che l’ETA dice di difendere attraverso l’azione violenta potrebbe essere difesa pacificamente in parlamento e in seno alle istituzioni. Nel caso del terrorismo islamico, la necessità di distinguere tra terrorismo e Islam. E anche la necessità di distinguere tra la condanna assoluta del terrorismo islamico e le posizioni legittime dell’opinione pubblica sulla guerra in Iraq o sui rapporti con il mondo musulmano.
Infine, un’ultima riflessione su una questione problematica, anche alla luce dell’esempio spagnolo. Le vittime del terrorismo hanno diritto di ricevere assistenza e risarcimenti ma anche hanno diritto di avere giustizia. Le vittime hanno il diritto che si esiga ai terroristi la piena responsabilità delle loro azioni. Tuttavia questo pone una questione che nel caso spagnolo è stata polemica e niente affatto pacifica: quale deve essere il ruolo delle vittime del terrorismo nella determinazione dell’agenda politica? In Spagna, le associazioni delle vittime del terrorismo, al plurale, hanno mantenuto posizioni diverse e sono state utilizzate dai vari partiti politici in funzione di necessità o posizioni contingenti. Analizziamo l’esempio spagnolo. In varie occasioni si è parlato della possibilità di arrivare ad una soluzione negoziale con l’ETA, che ponga fine al problema del terrorismo basco. In queste circostanze, le vittime del terrorismo sono state presentate come danneggiate dal possibile processo negoziale. Le vittime devono potere esercitare una sorta di veto su iniziative politiche che, per sconfiggere il terrorismo, comportino una certa amnesia volontaria rispetto al passato? Le vittime del terrorismo sono depositarie della memoria. Ma spesso, ci suggerisce il pragmatismo, la risoluzione dei conflitti esige un certo grado di perdono e forse addirittura di oblio. Conflitti come quelli del Medio Oriente o dell’Ulster potranno essere superati con un dialogo che sarà doloroso per chi è stato vittima della violenza terrorista. Dobbiamo, in nome della memoria e del rispetto delle vittime, chiudere strade che forse possono porre fine alla violenza, evitare che ci siano nuove vittime? Oppure, al contrario, in nome del pragmatismo e del realismo politico possiamo costringere al perdono e all’oblio coloro i quali hanno il diritto di non perdonare e non dimenticare? Il dilemma è complicato. É così ovunque. É così in Spagna, anche se si finisce sempre per provare la sensazione con cui ho iniziato questo intervento: alla fine la valutazione delle vittime e del loro dolore finisce per adeguarsi alle esigenze politiche. Personalmente, se mi consentite e a rischio di abusare della funzione interpretativa e descrittiva che mi avete attribuito, ho l’impressione che la soluzione reale ai conflitti richieda spesso la volontà di voltare pagina ed è più facile che ciò si verifichi nell’ambito della società nel suo insieme che fra i cittadini più direttamente colpiti. Qualunque processo di pace è anche un processo di riconciliazione. E non è facile giungere alla riconciliazione se l’agenda politica è gestita dai settori più personalmente colpiti e danneggiati. Ma non si può nemmeno giungere alla riconciliazione senza salvaguardare i diritti delle vittime, senza garantire loro rispetto e riconoscimento.
Ad un anno dai tragici attentati dell’11 marzo a Madrid, l’esperienza attuale spagnola rispetto al terrorismo è cambiata notevolmente. Il terrorismo per così dire interno, rappresentato dall’ETA, si ritrova indebolito dall’azione delle forze dell’ordine e senza orizzonti, e presenta un’intensità relativamente molto bassa, anche se questo non significa che abbia perso la capacità di colpire. La popolazione ha invece scoperto l’esistenza di una minaccia nuova, basata su una visione del mondo che le risulta difficile da comprendere e con la quale non è in grado di trovare spazi di dialogo. Già succedeva con l’ETA. Succede ancor più con il terrorismo islamico. La sensazione è che il fenomeno terroristico si sviluppi dietro un muro concettuale, in uno spazio governato da una logica strana e incomprensibile. Ma l’esistenza del terrorismo comporta che anche al di qua del muro dobbiamo porci delle domande. Fino a che punto abbiamo cambiato il valore delle vittime in funzione dell’ideologia dei terroristi? Fino a che punto confondiamo i metodi con gli obiettivi? Fino a che punto partecipiamo senza volerlo alla colpevolizzazione, individuale o collettiva, delle stesse vittime? E siamo noi che dobbiamo rispondere a queste domande, perchè sono dalla nostra parte del muro. Non dalla parte dei terroristi, ma dalla nostra, in quella dove siamo tutti noi. Quella dove si trovano soprattutto le stesse vittime.
Vicenç Villatoro