AD AMSTERDAM L’ULTIMO INCONTRO DEL PROGETTO EUROPEO “VNET2” SU VITTIME E COESIONE SOCIALE

AD AMSTERDAM L’ULTIMO INCONTRO DEL PROGETTO EUROPEO “VNET2” SU VITTIME E COESIONE SOCIALE

  • 30 Giugno 2009

Convegno Europeo “Vittime del Terrorismo e coesione sociale”: AMSTERDAM 30 GIUGNO 2009

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Il tavolo degli oratori con Antonio Iosa (secondo da destra)

L’intervento di Antonio Iosa del Direttivo nazionale dell’AIVITER

Premessa
Sono Antonio Iosa, del Direttivo dell’Associazione Italiana Vittime del Terrorismo, il gambizzato più sfortunato d’Italia a seguito della gravità delle ferite riportate nell’attentato delle ‘brigate rosse’, avvenuto il 1° aprile 1980, in una sezione periferica della D.C. (Democratic Christian Party), nella città di Milano.
Le brigate rosse sono state in Italia il gruppo di fuoco più attivo nel realizzare la violenza rivoluzionaria armata con attentati, sequestri, rapine, ferimenti, uccisioni. Le sole brigate rosse, su 489 vittime del terrorismo e di stragi di tale matrice, hanno provocato, in Italia, la morte di ben 85 persone e oltre 100 sono stati i feriti.
Oggi mi sento un pezzo di carne maciullato, ma sono qui in mezzo a voi per testimoniare, con serietà e coerenza, la dolorosa realtà di vita da me condotta, dopo la traumatica esperienza della gambizzazione.
Sono grato di partecipare a questa seminario di studio dal titolo sulle “Vittime del Terrorismo e la coesione sociale”, per portare una mia testimonianza diretta di vittima e raccontare il mio calvario fatto di centinaia visite specialistiche, migliaia di medicazioni chirurgiche e oltre 29 ricoveri ospedalieri, per evitare l’amputazione degli arti soggetti ad ischemia muscolare, ad ulcere, a piaghe e a fistole che provocano infezioni e necessitano di interventi chirurgici costanti.
A questo punto mi è doveroso fare una precisazione.
Al momento del mio ferimento non ricoprivo incarichi politici o amministrativi. Ero un semplice impiegato al Comune di Milano e non ero un esponente importante del mio partito, ma soltanto un iscritto al Partito della Democrazia Cristiana; ed operavo in un quartiere popolare della città di Milano, dove era localizzata una sezione decentrata del mio partito, che spesso frequentavo.

1962 la nascita del Circolo culturale Carlo Perini in un quartiere di “Nuova frontiera della cultura”
Preciso, però, che nella mia attività di volontariato e di impegno civile e sociale, avevo fondato, nel lontano 1962, un Circolo culturale, in un quartiere della periferia di Milano, caratterizzato dalla presenza di una popolazione costituita da proletariato e sottoproletariato urbano, prevalentemente immigrata e proveniente dal Meridione d’Italia e dal Veneto, due regioni depresse degli anni’50.
Milano era allora un crogiuolo di idee; una città dell’accoglienza e dell’offerta di lavoro che non rifiutava nessuno e facilmente s’integrava nel contesto sociale e produttivo milanese.
Come fondatore del Circolo culturale Carlo Perini mi ero assunto il compito il portare la cultura di qualità nei quartieri popolari e periferici della città, attraverso il metodo del confronto e del dialogo
democratico. Portare cioè: la cultura del centro storico verso la periferia e la cultura della periferia verso il centro della città.
Il Circolo Perini è diventato, nel corso degli anni, un punto di riferimento di vita comunitaria a livello cittadino, regionale e nazionale e ha permesso di mettere in comune, idee, speranze, lavoro e frustrazioni, diventando un luogo di spazio sociale del dialogo multiculturale.
Proprio per queste azione di testimonianza di promozione umana e sociale, le brigate rosse mi hanno sparato alle gambe, con l’attentato del 1 aprile 1980, non tollerando che un cattolico democratico potesse svolgere la sua azione di operatore culturale nei quartieri di proletariato e sottoproletariato urbano.
Nel volantino di rivendicazione del mio attentato i brigatisti motivarono il mio ferimento scrivendo che “Iosa inganna i proletari e sottoproletari dei quartieri popolari di Milano, facendo cultura per il sistema politico dominante”.

La normalità di vita sconquassata dall’attentato
Dal quel lontano 1 aprile del 1980, non mi considero più, sul piano fisico, lavorativo e psicologico, un uomo normale e ho cominciato a vivere un difficile rapporto di reinserimento nel lavoro, nella famiglia, nella società, superando molte difficoltà. Voglio elencare alcuni elementi devastanti, che hanno cambiato la mia vita e reso difficile il mio inserimento e il mio ritorno alla coesione sociale.
Prima di tutto il colpito per terrorismo, se vive, non ha la sensazione di avere fatto atti importanti ed eroici. Il terrorismo è umiliante, non è come una guerra dove il contesto, almeno quello tradizionale, coinvolge positivamente gli attori di una guerra, sia pure civile, come quella dichiarata dall’antagonismo armato. Il colpito si sente umiliato, in quanto attaccato da gente mascherata e armata senza potersi difendere; accusato di cose che indirettamente non lo riguardano e quindi condannato ingiustamente!
Sul piano psicologico l’evento terroristico è stato la causa del grave disturbo traumatico, che permea tutti gli aspetti della mia vita. Le gravi conseguenze fisiche e il quadro psicopatologico, causati dall’attentato, si associano, tuttora, nel determinare una grave compromissione funzionale in tutti gli aspetti della vita sociale, lavorativa e familiare.
Non esiste, sul piano della coesione sociale, una pubblica opinione positiva a cominciare da familiari e parenti. Alcuni ti dicono che potevi occuparti della tua famiglia e non degli affari altrui; altri, che sono stati i tuoi stessi “cosiddetti amici a organizzarti l’attentato per convenienza o invidia”. Per mesi e anni, insomma, la vittima si trascina una modesta fama, come minimo, di sprovveduto o imprudente e qualcuno ti dice anche, che l’attentato te lo sei l’è meritato o cercato per l’impegno politico, sociale e culturale svolto.
Questo dato deprimente io l’ho sentito addosso passati i primi giorni, tanto è vero che, per anni, ho cercato di dimenticare l’attentato, ma non sono riuscito per i motivi che illustrerò dopo.

Ecco alcuni elementi caratteristici del disagio che ho vissuto o vivo quotidianamente.
a) Il primo elemento riguarda la solitudine, che prova una vittima di fronte al dolore e alla ricerca della solidarietà umana

Quando si è malati la persona vive i propri dolori fisici nella più tremenda solitudine. Solo la solidarietà e la vicinanza dei familiari, degli amici e della società alleviano la sofferenza.
Per me è stato fonte di sollievo, al momento del mio ferimento, la vicinanza sia da parte sia dei familiari, dei parenti e degli amici, sia da parte degòi esponenti dei partiti democratici che della società civile milanese.
Significativi sono risultati gli attestati di solidarietà, soprattutto, di semplici cittadini. che hanno voluto dimostrare lo sgomento e la condanna per la violenza terroristica, subita da una persona inerme e innocente, come me, che si batteva per i diritti degli abitanti dei quartieri popolari di Milano e per migliorarne le condizioni di vita.

b) Il secondo elemento riguarda come vincere la paura e come ritornare nella normalità di vita dopo l’attentato.
Mentre ero in ospedale, qualcuno che mi visitava mi aveva chiamato “eroe della democrazia”.
Ma quale eroe potevo essere io che non mi consideravo affatto un eroe, neanche per caso, perché nulla di eroico avevo fatto, ma avevo solo subito un ingiusta e tremenda violenza politica da parte dei brigatisti criminali. Fra le tante domande che mi sono state rivolte, la più frequente, è quella relativa alla paura che ebbi durante l’esecuzione dei terroristi.
La paura è un sentimento connaturato nell’uomo. Per quanto mi riguarda, debbo confessare con sincerità, di non essere un uomo coraggioso, bensì piuttosto il contrario, cioè “fifone e troppo emotivo”. Nella serata della sparatoria il mio terrore fu tale che subii, senza saperlo, uno choc diabetico. Sino ad allora ignoravo che la paura potesse fare aumentare la glicemia del sangue e causasse la febbre alta.
La paura, inoltre, dominò sovrana per tutto il periodo del ricovero ospedaliero e della riabilitazione. Auguravo a me stesso di morire piuttosto che restare amputato o paralizzato su di una sedia a rotelle, consapevole che l’immobilità permanente sarebbe stata una croce troppo dolorosa per me e per la mia famiglia.
Oggi a distanza di oltre 29 anni, ho sempre paura quando esco di casa per recarmi agli incontri.
Il senso di panico e di palpitazione cardiaca aumentano quando mi trovo coinvolto o assisto, semplicemente, a cortei o a manifestazioni, ove nascono tafferugli o momenti di tensione o di scontri. Vivo momenti di sussulto o di spavento ad ogni rumore assordante o di spari o quando assisto ad incidenti stradali. Mi limito a scappare per paura e non sono capace di soccorrere il malcapitato. La vista del sangue mi provoca capogiri e mi toglie il coraggio.
Ritengo infatti che sia difficile dimenticare per chi è stato vittima di un attentato e porta i segni invalidanti permanenti sul proprio corpo, frutto di una grave menomazione fisica.
Mi sono sforzato di superare le mie paure, continuando l’azione di presenza e di testimonianza culturale nella vita civile, politica e sociale della mia Milano.
La violenza, con qualunque motivazione si esprime, può uccidere o menomare le vittime, ma non potrà mai distruggere i valori di libertà e di democrazia per i quali essi vivono e nei quali credono.

c) Il terzo elemento di sconvolgimento della vittima è l’invalidità permanente, che condiziona l’inserimento nell’attività lavorativa.
Camminavo con le stampelle, ma solo dopo cinque mesi di malattia scattò la voglia di riprendere il mio lavoro in ufficio e di programmare le attività culturali, che per ben sei mesi erano state sospese.
Non sapevo se avessi mai potuto camminare o se rimanessi inchiodato sulla sedia a rotelle,
comunque, avevo fretta di guarire, stimolato anche dalla volontà di riprendere il lavoro in ufficio.
La mia malattia, fra numerosi ricoveri ospedalieri e cure riabilitative, durò un anno.
Questo stato deprimente io l’ho sentito addosso passati i primi giorni, ma poi una volta guarito dalle ferite ti butti nel lavoro e nell’impegno di prima, cercando di superare la malattia e l’angoscia.
Un primo tentativo di riprendere il lavoro risale a solo dopo 4 mesi dall’attentato. Feci uno sforzo inaudito andando a lavorare con le stampelle, ma dopo solo una settimana fui costretto ad interrompere il lavoro. Non riuscivo praticamente a deambulare a causa delle piaghe da decubito, che si erano formate al calcagno e ai piedi e che mi costringevano a sorreggermi con le stampelle.
Tale situazione mi costringeva alla immobilità e ad una continua sofferenza.
Mi sentivo, infatti, umiliato nei rapporti di lavoro, perché non avevo più l’efficienza di prima e mi vedevo più compatito, che accolto dai miei colleghi di ufficio.
La mia assenza dal lavoro si protrasse per circa un anno, sino a quando le fastidiose piaghe da decubito guarirono dopo ripetuti interventi chirurgici e medicazioni. La ripresa dell’attività lavorativa non fu, comunque, agevole per la persistenza del mio handicap motorio. Avevo, infatti, difficoltà non solo a muovermi, ma non potevo più guidare la macchina per la paralisi della gamba sinistra e facevo molta fatica a viaggiare sui mezzi pubblici per recarmi sul posto di lavoro.
Allora mi resi conto di non essere più nelle condizioni di prima per svolgere, con diligenza, il mio lavoro e mi sentivo isolato dal contesto degli altri colleghi, anche se non ero oggetto di mobbing.
La ripresa dell’attività lavorativa, tuttavia, da un lato mi ha consentito di reinserirmi tra i compagni del Comune di Milano, dall’altro la menomazione fisica mi faceva sentire emarginato, appartato dal contesto, tanto da avere la netta sensazione di essere più tollerato, che accettato sul piano della pari dignità ed efficienza di lavoro.
Rimanere per un anno fuori dal lavoro con una famiglia a carico da mantenere era stato per me fonte di preoccupazione anche sul piano economico e sul piano della coesione sociale.
Mi sentivo un problema e un peso per lo stesso ufficio e tale situazione mi faceva soffrire psicologicamente per lo scarso rendimento di efficienza di produttiva nel lavoro.
Nelle condizioni fisiche e psicologiche in cui mi trovavo, ero costretto a lavorare non avevo, certamente, prospettiva di migliorare la mia posizione e tanto meno di fare carriera o di avere la voglia e la concentrazione mentale, per partecipare ai concorsi, per avanzare di grado e conseguire una migliore qualifica professionale.
Le vittima del terrorismo, se hanno salvato la pelle e recuperato decentemente la salute, ci mette decenni prima di mettersi alle spalle l’esperienza vissuta e se gli mancano gli argomenti, difficilmente trova il tempo e la forza di recuperare credibilità.
Nel mio caso la gravità delle ferite riportate, mi costringono da 30 anni a fare i conti con la sofferenza quotidiana e non riesco a dimenticare, per questo anche la coesione sociale è problematica.

d) Il quarto elemento di disagio relazionale scaturisce dalla situazione psicologica scaturita dalla sindrome da stress post-traumatico
Come operatore culturale, con una tenace forza di volontà e quasi in risposta alla violenza terroristica che non aveva fiaccato il mio animo, proseguii nel mio impegno di programmare le iniziative: dibattiti, convegni, conferenze, mostre, concorsi fotografici e di poesia, spettacoli di cineforum e pubblicazioni di studi e ricerche di grande interesse culturale.
Con la forza della disperazione sono riuscito a mantenere in vita il Circolo culturale da me fondato sino ad oggi: 30 giugno 2009. Vorrei però mettere in evidenza il quarto elemento di disagio, che continua a turbare la mia quotidianità di vita.
Dopo i titoli a caratteri di scatola sui giornali e l’iniziale solidarietà umana, la vicenda del mio attentato scompare dal pubblico e affonda nel “privato”.
Forse in ciascuno di noi esiste, oltre a quella individuale, anche una sorta di rimozione collettiva. Siamo portati a pensare, che in fondo, tutto è bene ciò che finisce bene.
E Iosa, come tutti i feriti dal terrorismo, non era mica morto e perciò si poteva dimenticare.
Nessuno si è chiesto che cosa può succedere ad un gambizzato dopo. Nessuno sa cosa prova a distanza di decenni chi ha subito un trauma per atti di violenza; come cammina; quali dolori si continuano a sopportare; quali sconvolgimenti psicologici.
Nel privato, nel suo privato di uomo, padre, marito!
Ricordo un episodio del quale sono stato protagonista un decennio fa.
Un amico, ex dirigente democristiano, vedendomi vistosamente zoppicare, mi chiese:
– Iosa come mai cammini tanto male e sei diventato sciancato? Hai avuto forse un incidente stradale con la macchina?
– Non ho avuto un incidente stradale, questi sono i postumi della gambizzazione da parte
delle brigate rosse e dovresti ricordartelo!
– Ah, zoppichi ancora per quella cazzata!
Se per i politici e la maggioranza dell’opinione pubblica, abituata a dimenticare in fretta, il ferimento agli arti inferiori è una cazzata, mi chiedo allora:
“che cosa sarà mai la condizione umana di una vedova o di un orfano, che vivono nella quotidianità la tragedia dell’uccisione del proprio marito o del proprio padre?”

e) Il quinto elemento che caratterizza il disagio di una vittima riguarda, soprattutto, il comportamento dello Stato che ha dato priorità, con una legislazione premiale, ai brigatisti autori di crimini terroristici, dimenticando i diritti delle vittime.
Il 2 agosto 1980 fu compiuta l’infame strage alla Stazione centrale di Bologna, con il bilancio di 85 morti e 200 feriti. Il Parlamento italiano, con ammirevole sollecitudine, approvò al riguardo la legge n. 466 del 13 agosto 1980 ,che prevedeva “speciali elargizioni a favore di categorie di dipendenti pubblici e di cittadini vittime del dovere e di azioni terroristiche”.
In tale testo di legge risultava evidente che tutti i casi delle vittime ferite erano esclusi, in quanto la legge in questione prevedeva i benefici solo per i deceduti o per le vittime, che avessero riportato una grave invalidità superiore all’80% delle capacità lavorative e che comportasse, comunque, la cessazione del rapporto di lavoro.
Tale criterio restrittivo era profondamente sbagliato, perché la stragrande maggioranza delle vittime ferite si doveva accontentare della solidarietà verbale. Ci sono voluti ben 10 anni affinché lo Stato italiano concedesse anche ai feriti superstiti il riconoscimento dei loro diritti e alcune provvidenze di assistenza sanitaria, ma intanto molti anni erano passati, affrontando notevoli disagi curarsi.
Con le leggi n. 302 del 1990, quella del 23 novembre del 1998 e del 2 agosto 2004, n.206. si sono ottenuti gradualmente, nel corso degli anni dei benefici concreti con “norme in favore delle vittime del terrorismo e di strage di tale matrice”. Si può dire che oggi l’estensione di leggi hanno portato significativi benefici per tutte le vittime e per i loro familiari.

f) Il sesto elemento riguarda il disturbo post- traumatico da stress cronico che colpisce, più o meno gravemente, tutti i familiari dei caduti e le vittime superstiti e i loro familiari.
Per quanto mi riguarda ricordo tutto del mio attentato come un “film”: l’irruzione del commando dei brigatisti nella sezione della D.C. di via Mottarone a Milano e quei momenti terribili, durati 15 minuti, che mi sono sembrati infinitamente lunghi.
Rivivo l’evento sotto forme di immagini nelle quali mi rivedo il susseguirsi delle scene dal momento in cui i quattro brigatisti, imbavagliati e incappucciati, fecero irruzione nella sezione della D.C. con le pistole in pugno con in canna il silenziatore, che io stupidamente pensavo fosse un microfono per intervistarci.
Tutti i particolari, visivi e auditivi sono presenti: la scena iniziale, la voce femminile e minacciosa, le frasi specifiche dei terroristi che ci accusavano di essere complici dell’uccisione dei loro quattro compagni a Genova, l’esproprio dei documenti e del portafoglio, la scelta di altri tre amici di sventura gambizzati con me, il rosso sangue, l’ossessione di essere ad un passo dalla morte, il mio appello al terrorista perché non mi sparasse, perché avevo moglie e due bambini e la sua sprezzante risposta “inginocchiati stronzo!”, il pensiero dominante di mia moglie e dei due miei figli: Davide e Christian, che all’epoca, avevano rispettivamente 10 e 7 anni.
I miei due figli allora frequentavano le scuole elementari e andando il cognome sui giornali, non sempre furono capiti da compagni e insegnanti, anche perché per la loro età non riuscivano a dare risposte e chiarire le perplessità su quanto successo in famiglia e quindi, anch’essi subirono effetti psicologici negativi, che durano tuttora.
Rievoco, altresì, la tragedia della lunga serie dei ricoveri ospedalieri e degli interventi chirurgici ai quali mi sono sottoposto, associata alla possibilità paventata dai medici della amputazione degli arti inferiori. Da ciò è nata una costante e motivata demoralizzazione fisica e mentale.
Sono comparse nel corso degli anni turbe del sonno in termini di difficoltà di addormentamento e frequenti risvegli dovuti ad incubi, che avevano come tema centrale l’attentato.
In conseguenza di tali incubi mi sveglio, tuttora in preda a forte ansia e agitazione, che rendono impossibile il recupero del sonno, spesso interrotto da crampi alle gambe che si associano al ricordo angosciante del trauma e si accompagnano ad intensa rabbia.
Dopo l’evento anche i rapporti con la famiglia e con gli amici, sono cambiati vivendo in uno stato continuo di allerta e di tensione. Di fronte a stimoli come “fuochi, spari o rumori improvvisi” sobbalzo e mi agito, sino a diventare più irascibile.
Anche la memoria ha le sue perdite e la concentrazione si affievolisce nel portare a termine diversi compiti lavorativi. Spesso ho sintomi di distacco e di vuoto, di estraneità e di drastica perdita di rapporti sociali. Il quadro clinico è rimasto invariato nel tempo, non avendo mai riposto l’attenzione sul quadro psicopatologico e quindi non avendo mai assunto terapia psicofarmacologica, che causa disturbi collaterali indesiderati.
Oggi a distanza di oltre 29 anni al disagio fisico e psicologico si aggiungono altri fattori di rischio legati ad altre patologie dovute all’età anziana, per cui mi sento veramente un pezzo di carne maciullato e una persona dimezzata che vive un rapporto di relazioni umane e sociali con estrema fatica.

 

In ottemperanza alle disposizioni nazionali relative alle norme da adottare per il contenimento del coronavirus si informa che la Segreteria operativa di Aiviter resterà chiusa sino al  31 marzo  2022

Durante il periodo di chiusura l’attività della nostra Associazione continuerà seppur a regime ridotto.

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