VIII Giornata Europea in ricordo delle Vittime del Terrorismo

VIII Giornata Europea in ricordo delle Vittime del Terrorismo

  • 9 Marzo 2012

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In primo piano da destra: Adriano Sabbadin, Maurizio Campagna e Alessandro Santoro


L’intervento di Aiviter

Il figlio del Procuratore Generale di Genova ucciso con la scorta dalla Brigate Rosse nel 1976, membro del Direttivo Aiviter, è intervenuto alla Commissione Euroepa di Bruxells in occasione della VIII Giornata Europea.

Il ruolo della vittima del terrorismo nella prevenzione della radicalizzazione che conduce al terrorismo: un testimonianza italiana

Saluto tutti i convenuti, e ringrazio di cuore per l’opportunità concessami oggi di portare una mia personale testimonianza a questa assemblea

Mi chiamo Massimo Coco, sono il figlio di Francesco Coco, magistrato, procuratore generale della Repubblica a Genova, assassinato l’otto giugno del 1976 da un commando terrorista delle Brigate Rosse, a pochi passi da casa. Nell’attentato morirono accanto a lui un brigadiere di pubblica sicurezza, Giovanni Saponara, e un appuntato dei carabinieri, Antioco Dejana.
Altri tre uomini di scorta, a bordo di un’auto della polizia di Stato, furono congedati da mio padre pochi istanti prima, e scamparono miracolosamente all’agguato.
Fu il primo assalto mortale alle Istituzioni, l’inizio del cosiddetto attacco al cuore dello Stato.
Io avevo quindici anni, ne avrei compiuti sedici pochi giorni dopo; il mio sedicesimo compleanno coincise con la cerimonia di tumulazione di mio padre nel cimitero genovese di Staglieno.
Si calcola che almeno venti persone dovessero far parte del gruppo di fuoco di quel giorno, considerando anche il fatto che era stato programmato l’annientamento di una scorta armata.
Ma nessuno ha pagato per quei tre morti, e a trentasei anni dall’agguato non conosco ancora il nome dell’assassino di mio padre. Conosco il nome di chi sparò all’autista che guidava l’auto di servizio, il povero Dejana; in abiti borghesi, inerme e disarmato, Dejana attendeva nell’auto il rientro del collega, e in un luogo lontano dall’altra scena del delitto; ma gli spararono comunque e a bruciapelo, per eliminare un simbolo, semplicemente perché avevano visto in lui il servo di un servitore dello Stato.
Numerosi testimoni oculari identificarono l’assassino, che fu in seguito arrestato; ma poi ritrattarono tutti, perché minacciati, e quell’uomo venne assolto. Alcuni di loro ci telefonarono, piangendo e chiedendo perdono per la viltà di quel gesto. Ma come dargli torto?
Il clima di quegli anni nel nostro Paese era terrificante, inimmaginabile. Qualche esempio: nelle basi operative dei terroristi genovesi, erano state rinvenute più di tremila schede, precise fino al dettaglio, dove venivano descritti vita, abitudini, orari di lavoro, luoghi di frequentazioni e quant’altro di possibili “obbiettivi militari”, di persone cioè destinate a essere in qualche modo colpite. In un’epoca in cui non esistevano telefonia mobile, fotocamere e cineprese digitali, personal computer, questo significava potersi organizzare con una rete capillare e gigantesca di informatori, ovvero poter contare nel sostegno di un’area sterminata di contiguità, complicità, logistica.
In una di quelle schede c’erano appuntati anche gli orari delle mie lezioni al Conservatorio, non so per quale uso o progetto; ma io stesso, quindicenne, avevo dignità di scorta armata, durante i miei spostamenti programmati. E ancora: quando le Brigate Rosse decisero la condanna a morte di mio padre, come loro consuetudine stilarono un lungo documento, contenente la sentenza del processo istruito dal loro autoproclamato “tribunale del popolo”. Quel documento fu portato al Liceo dove studiavamo io e le mie due sorelle, e “recapitato” facendolo trovare direttamente sul banco della mia sorella maggiore. Questo era il clima in Italia, in quegli anni.
Ma non starò a parlare qui del dolore, del senso di abbandono, del risentimento, delle quotidiane battaglie di tutte le vittime del terrorismo contro una burocrazia statale perennemente ostativa verso i nostri diritti, di tutte quelle cose insomma che credo esservi purtroppo ben note.
Io nella vita faccio il musicista, sono un violinista, e ho una cattedra al Conservatorio statale di musica. Sono tornato come insegnante proprio nella scuola dove ho compiuto i miei studi musicali, il Conservatorio Nicolò Paganini, nella mia città natale, Genova. In quella stessa scuola dove andavo scortato dalla polizia.
Ed è proprio di una mia particolare esperienza da insegnante, che vi vorrei parlare oggi.
La scuola dove insegno sembra un’isola felice, una splendida villa antica immersa in un parco di alberi secolari; invece racconta storie drammatiche, di cui, non lo nascondo, avverto il peso ad ogni lezione. In quella villa, nell’immediato dopoguerra, grazie ad un ufficio consolare argentino che vi era stato collocato prima che diventasse una scuola di musica, hanno ottenuto i documenti falsi utili all’espatrio molti tra i più feroci criminali nazisti; Mengele, Eichmann, Priebke, Pavelic, gli assassini più ricercati del pianeta hanno avuto una nuova identità utile all’impunità proprio nei locali dove io e i miei colleghi oggi insegniamo musica; difficile non avvertire il peso di quella memoria.
Ma altre storie si raccontano intorno alla villa del Conservatorio, più personali, forse; e infatti per me è come una specie di memoriale a cielo aperto; via Rivoli, a pochi passi dal cancello del parco della villa, due carabinieri assassinati, uno ferito; poco più avanti, la facoltà di ingegneria: il parco prospiciente porta il nome di un caduto delle forze dell’ordine, vittima del terrorismo, conosco bene la vedova; ancora pochi passi, via Dejana, è la strada dedicata all’autista di mio padre, quante volte ho parcheggiato lì la mia automobile; venendo con l’autobus, invece, si può scendere alla fermata dove fu assassinato dalle Brigate Rosse un commissario di polizia; andando verso il mare, incontro l’incrocio dove fu rapito un magistrato, sempre dalle Brigate Rosse, e ancora più avanti lì dove un amico fu ferito alle gambe, e fu reso invalido; e dalle finestre della villa posso vedere anche gli alberi del parco pubblico dedicato alla memoria di mio padre, e potrei ancora continuare.
Ho provato a chiedere ai miei studenti cosa conoscessero di queste storie del dopoguerra, cosa sapessero della fuga di quei criminali, e cosa dicessero loro tutte quelle lapidi, quei nomi là intorno.
Silenzio.
Con mia grande sorpresa, nessuno di loro conosceva nemmeno qualcosa del vissuto del loro insegnante, nulla sull’assassinio di mio padre e dei due agenti di scorta, immaginarsi del resto. La reazione sembrava di disinteresse, percepivo in loro quasi fastidio, per quella mia digressione extra-musicale che aveva interrotto la loro lezione.
Ma al nostro incontro successivo, nuova sorpresa, quasi da commuoversi. Né fastidio né disinteresse, era solo il pudore dell’ignoranza.
Ognuno di loro si era meticolosamente preparato su tutto, sulle storie dentro e fuori della nostra scuola; su mio padre, sull’agguato dove aveva trovato la morte, e così per gli altri caduti, e anche sulla fuga dei nazisti, su ogni cosa. Ognuno di loro mi mostrava, e con malcelato orgoglio, come era stato capace di aggiornarsi in fretta.
Quel giorno ho ricevuto io una lezione, mai sottovalutare i più giovani, spesso sono come un campo aperto, fertile, inesplorato. Bisogna arrivare lì prima dei “cattivi maestri”, questo sì; dobbiamo essere noi i più veloci a passare in mano loro il testimone della memoria storica, loro lo riceveranno volentieri, poi ci dimostreranno di avere le energie per correre più velocemente.
Non ho l’illusione di poter relegare per sempre il terrorismo nei libri di storia, e di non doverne più leggere nella cronaca quotidiana. Il terrorismo purtroppo è un fenomeno criminale camaleontico, sa trasformarsi, ammodernarsi, insinuarsi nelle democrazie anche le più avanzate, così come i peggiori parassiti scelgono spesso i corpi più sani, per annidarsi.
Ma che le nuove generazioni siano perlomeno preparate a combatterlo meglio di quanto non siamo stati capaci di farlo noi, questo è giusto pretenderlo.

Massimo Coco

 

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