COMMEMORAZIONE DI MAURIZIO PUDDU A PALAZZO LASCARIS (2007)

COMMEMORAZIONE DI MAURIZIO PUDDU A PALAZZO LASCARIS (2007)

  • 25 Gennaio 2017

tutino

“Maurizio Puddu nasce a Torino nel dicembre del 1931. La sua educazione è all’insegna del senso del dovere, del rispetto, del cattolicesimo e dell’impegno sociale. Ricordava: “Sono cresciuto all’oratorio. Servivo la messa a don Costantino Marengo, un antifascista coraggiosissimo di Barriera Milano”.
Il giovane Maurizio, dopo gli studi classici, si iscrive all’università di Torino.
È anche uno sportivo appassionato. All’inizio degli Anni ’50 corre come ciclista dilettante nel V. C. Covolo, un artigiano di corso Giulio Cesare che dirige una forte squadra regionale.
Questa formazione giovanile – da un lato la parrocchia con i primi impegni sociali e i primi sentori politici, dall’altro il club ciclistico e la scuola – darà al giovane Maurizio delle capacità organizzative che costituiranno uno dei segni distintivi di tutta la sua vita.
La passione sportiva prima, poi il servizio militare come ufficiale nell’arma della Cavalleria, infine la volontà di sposarsi, lo inducono ad entrare nel mondo del lavoro ed a lasciare l’università per un impiego presso il comune di Torino nel settore dei servizi doganali.
Si sposa quindi con Nives e negli anni ’60 nascono due due figli, Massimo ed Andrea.

Contemporaneamente prende nuova forma la militanza politica nella Democrazia Cristiana. Era stata un’adesione precoce ( “Subito dopo la guerra – ricordava – avevo già la tessera del partito, firmata da Alcide De Gasperi”) Sarà una partecipazione sempre filtrata da un profondo sentimento cattolico.
Ottiene alcuni incarichi di partito marginali, membro di direttivi cittadini, provinciali e regionali. Però, come diceva lui,resta “ l’ultima ruota del carro”.
Forse è vero fino al 1970, dopo la sua carriera subisce un’evoluzione e viene eletto nel consiglio provinciale di Torino, poi Assessore, in seguito nuovamente e solo consigliere. Resta sempre un politico di seconda schiera, ma comincia a prendere la parola in aula, a scrivere su qualche foglio, ad essere brevemente citato sui giornali.

Nel frattempo, dopo il fuoco ideologico del ‘68, la scena politica torinese si va fortemente caratterizzando su due livelli: uno istituzionale, che vede protagonisti i partiti cosidetti ‘dell’arco costituzionale’; l’altro livello, che si interseca con il primo, si esprime nelle piazze, e qui i protagonisti sono le forze sindacali, i gruppuscoli di destra e le nascenti fazioni della sinistra extraparlamentare.
La fortissima conflittualità sindacale nella grande industria e nell’indotto, con scioperi e manifestazioni, i fermenti ideologici, le contrapposizioni politiche, portano ad aspri scontri sociali.

Le stragi di piazza Fontana a Milano nel 1969, l’esordio delle Brigate rosse alla Sit-Siemens di Milano e i loro primi attentati, poi Piazza della Loggia a Brescia nel 1974 e del Treno Italicus nello stesso anno, precipitano il paese in quella strategia della tensione che sfocia in un terrorismo diffuso.

C’è quello stragista della destra e dei servizi deviati, divampa il terrorismo delle Brigate e degli altri movimenti di matrice rossa. Anche a Torino l’esordio avviene con azioni dimostrative – colpirne uno per educarne cento -, poi a metà degli Anni Settanta, si passa ai ferimenti ed alle uccisioni.

Infatti si tenta di celebrare in città il primo processo ai capi storici delle Brigate Rosse. Contro questo evento cruciale per l’affermazione dello Stato si scatenano i terroristi che per anni colpiscono ed uccidono. Da un lato l’eversione che pretende di rappresentare i proletari, con l’humus intellettuale che la nutre e con le sue teorizzazioni politiche; dall’altro la legalità dello Stato e delle istituzioni democratiche, con uomini umili che si sacrificano e sono sacrificati in una vera e propria ‘seconda resistenza’, come ebbe a dirmi Maurizio Puddu.

Lui, nel pieno degli eventi, interviene spesso con discorsi di condanna delle azioni terroristiche che colpiscono ogni giorno la provincia di Torino.
“Le mie parole – dichiara – si incentravano sull’obiettivo di isolare, di mettere un cordone sanitario intorno alla violenza. Giudicavo importantissimo sottrarre i giovani, giustamente impegnati nelle istanze di rinnovamento sociale, all’inganno delle scorciatoie fatte di distruzione e scelte nichilistiche, prodromi di ferimenti e di eccidi. Eppure mi ero fatto il convincimento che la mia qualifica di consigliere provinciale non potesse assumere agli occhi dei brigatisti un particolare interesse. Non ero un potente, all’interno della DC avevo un ruolo senza particolare risalto. Mai avrei pensato che avrebbero voluto colpire uno come me”.

È l’estate del 1977, nei torridi giorni di quel luglio, alle soglie della piena maturità, Maurizio non sa che sta per concludersi la sua prima vita, la sua breve vita felice, e che sta per nascere ad una seconda esistenza.

Il 13 luglio al termine di una riunione di consiglio lascia la sede della Provincia per rientrare a casa.
“Avevo appena parcheggiato la vettura vicino al portone d’ingresso. Chiudendo la portiera, scorsi due sconosciuti a tre metri da me che armeggiavano in una borsa. Ritirai la chiave e, quasi contemporaneamente, vidi che nelle mani dei due erano apparse delle pistole con i silenziatori. Improvvisamente mi resi conto di quanto stava per accadere…un attimo dopo sentii una fitta lancinante alla gamba sinistra. Rimasi paralizzato dal terrore, mentre un dolore fortissimo mi pervadeva tutto. Pure mi scossi e trascinandomi faticosamente tentai di fuggire tra le auto parcheggiate, mentre l’altro brigatista – una donna – sparava alcuni colpi per intimorire i soldati di una vicina caserma e le persone che si erano affacciate alle finestre. Una seconda pallottola mi raggiunse all’addome, inciampai e l’acuta sofferenza mi obbligò ad accasciarmi sul cofano di un’auto…il sangue usciva dall’ arteria lacerata e le forze mi abbandonarono. Scivolai a terra e vidi chino su di me uno dei killer che alzava ancora la pistola. Implorai ‘per favore basta!’, ma ancora mi raggiunsero altri colpi, poi svenni”.

A compiere l’attentato è un commando di tre persone: Nadia Ponti con Lorenzo Betassa e Dante Di Blasi, operai della Fiat.
In totale i colpi sono 14, di cui sette a segno: tre alla gamba sinistra, una all’addome all’altezza del rene, tre alla gamba destra.

Trasportato all’ospedale in fin di vita, il ferito si salva perché un proiettile s’incastra nell’arteria femorale e frena l’emorragia.

L’attentato impressiona il mondo politico perché indica inequivocabilmente che le Br hanno messo nel mirino la Dc e i partiti politici.
A fine settembre, Puddu ritorna in Consiglio provinciale. Nel femore ha ancora una sbarra con diciotto viti che resteranno nella gamba sinistra per tutta la vita: “i chiodi della mia croce”, come ironizza lui.
Cammina faticosamente con le stampelle, ma nel breve tragitto attraverso l’aula, il rituale di degradazione ipotizzato dagli attentatori – la vittima che strascica il passo, nelle intenzioni dei brigatisti una punizione infamante – quel rituale viene da tutti colto come un segno di forza d’animo e d’onore. Maurizio Puddu è diventato un simbolo.

Ma ora si accorge che l’emergenza rivela l’altra faccia della medaglia.

“Scopersi – dichiara – che in realtà si faceva poco contro il terrorismo. A tutti i livelli. Che perdurava una sorta d’indifferenza che permetteva ai terroristi di continuare ad agire.
Ogni volta che sparavano a qualcuno, mi invitavano a partecipare ad assemblee e manifestazioni. Il mio messaggio era sempre lo stesso: non bisogna avere paura. Ma poi capii che quel messaggio interessava poco ai partiti. Anche alla Dc. Una caduta d’interesse che avvertii in modo particolare dopo la vicenda Moro.
All’inizio ero circondato dalla considerazione degli amici di partito, Ma presto mi resi conto che a loro della mia vicenda interessava soltanto il tornaconto politico-elettorale”.

Per Puddu è il momento del disincanto e dell’amarezza. Lascia la politica e si ritrova solo alle prese con lo status di invalido, con le pratiche mediche e legali, con le telefonate anonime che per dieci anni ancora, fino al 1997, continueranno a prenderlo di mira.

Decide di riprendere gli studi universitari, ma quando si presenta a Palazzo nuovo viene accolto da gruppi di studenti che lo insultano e gli lanciano addosso sputi e monetine. Si laurea ugualmente, ma a Trieste, e intraprende una nuova professione in ambito amministrativo.

Il suo stato personale non gli impedisce però di costituirsi parte civile nel processo contro le Br che finalmente si tiene a Torino e poi di entrare in contatto con tanti altri feriti e vittime e famigliari che dallo Stato non hanno avuto nessuna assistenza.
“Paradossalmente i terroristi – ha modo di rilevare – hanno dallo Stato tutte le garanzie, sono doverosamente curati, mentre a noi tocca un’umiliante trafila per le cure mediche e per ottenere qualche riconoscimento”.

C’è quindi la necessità di tutelare i diritti delle vittime.
Ma c’è anche un altro aspetto di fondo che nel 1985 lo muove a costituire l’Associazione Italiana vittime del terrorismo e dell’eversione contro lo Stato.
E cioè la necessità d’impedire che si perda la memoria delle vittime, che il loro sacrificio, la loro resistenza, semplicemente svanisca.
Egli ritiene che il ricordare debba avere anche una finalità didattica per contrastare il possibile ritorno di una non ancora spenta stagione d’intolleranza e d’odio sociale.

Così, con pochi mezzi, Maurizio Puddu umilmente dedica i restanti ventisette anni della sua esistenza – la sua seconda vita – a salvaguardare i diritti ed a raccogliere le memorie delle vittime.

Non c’è odio in lui. La religiosità e la fede che gli fanno sopportare i dolori della condizione fisica, lo muovono paradossalmente ad una profonda Pietas, a un sentimento laico di fraterna partecipazione agli sgomenti e alle sofferenze delle vittime e poi a riservati contatti con alcuni terroristi pentiti.

L’Associazione nasce in un clima di malcelata ostilità, che cresce mano a mano che mette radici : “Dovevo fare i conti – scrive Maurizio – non solo con la mia paura e con il dolore fisico, ma anche con una subdola campagna che tendeva a dipingermi come un matto irrimediabilmente segnato dal trauma. Era interesse di molti che le vittime restassero isolate, che non comunicassero tra loro, che non avessero voce”.

Le mille iniziative che intraprende impediscono comunque che pretese ragioni culturali e politiche prevalgano sullo Stato di diritto. E, con il passare del tempo cresce il rispetto per le sue posizioni
Anche perché mano a mano che i terroristi condannati all’ergastolo, e molti a più ergastoli, sono rimessi in libertà, appare chiaro il rischio che a testimoniare su quei terribili anni siano chiamati soprattutto i carnefici. Sembra che, paradossalmente, si lasci scrivere la storia dagli sconfitti, dagli ex terroristi. Con la certezza che venga mistificata e con il rischio che ci si dimentichi di quasi 600 morti e 5000 feriti. E del calvario dei loro familiari.

È un susseguirsi di viaggi e contatti, di trattative ministeriali lunghe ed estenuanti, di mobilitazioni anche clamorose, di episodi grotteschi, come quando è denunciato da Renato Curcio per diffamazione. Nel corso degli anni la sua azione, unita a quelle di altre associazioni, riesce ad ottenere non pochi riconoscimenti giuridici e normativi anche se ancora oggi è in forse la legge 206 e il dispositivo d’applicazione.

L’ultima sua battaglia, quella di abolire il segreto di Stato sui fatti di terrorismo, è per ora incompiuta. Siamo ancora lontani dal fare luce sui troppi misteri.

Vorrei chiudere questo ricordo con le parole del presidente Puddu:

“Dopo tutto quello che è successo, le stragi, i morti ammazzati, i feriti, i politici pensano che si possa mettere tutto a tacere e sanare quelle ferite, magari con una stretta di mano. Per carità nessuno vuole vendetta nei confronti di chi sbagliò, pensando che si potesse cambiare il mondo privando della vita altri esseri umani. Niente rancori. E nemmeno richieste di gogna. Ma davvero si può pensare che un ferito o chi ha perso un congiunto possa accettare l’idea che non sia successo proprio nulla?
Perché è proprio questa l’idea che Stato, politica e organi d’informazione vorrebbero imporre.
Vedete, il comportamento dello Stato nei confronti delle vittime è davvero sconcertante. Da un lato ha svolto un’azione più di tipo assistenziale che risarcitoria e solidaristica. Si è mosso quasi per obbligo. Ha approvato delle leggi e poi le ha applicate in modo parziale. E soprattutto senza riconoscere che abbiamo pagato per gravissime incapacità politiche, per inefficienza degli apparati di intelligence, per carenze degli organi inquirenti e giudiziari.
Ecco che cosa manca per chiudere davvero e una volta per tutte la stagione degli anni di piombo: una verità completa. O almeno più credibile di quella che vorrebbero imporci. Questo per noi è un punto irrinunciabile.
E, allora, vogliamo che sia abolito il segreto di Stato su molte di quelle vicende, che si chiariscano le responsabilità politiche e istituzionali”.

Sul libro che riportava queste frasi ho scoperto una dedica quasi nascosta: all’amico Roberto Tutino perché si ricordi di Maurizio Puddu.

Ci sembrerebbe giusto se anche questa città e questa regione durevolmente si ricordassero delle vittime, di lui e della sua opera.

Roberto Tutino

 

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