La vicenda giudiziaria di Cesare Battisti, superlatitante degli anni di piombo

La vicenda giudiziaria di Cesare Battisti, superlatitante degli anni di piombo

  • 25 Gennaio 2017

Articolo di Roberto Martinelli tratto dalla Rivista del SAPPE “Polizia Penitenziaria – Società, Giustizia e Sicurezza” di febbraio 2006

La vicenda giudiziaria di Cesare Battisti, superlatitante degli anni di piombo

Ricordate la vicenda di Cesare Battisti?
La sua vicenda giudiziaria ha tenuto banco per mesi sulle cronache non solo italiane.
L’ex leader dei Proletari armati per il comunismo, uno dei superlatitanti degli anni di piombo fuggito dall’Italia e rifugiato in Francia, fu arrestato a Parigi ed era in procinto di essere estradato in Italia per scontare i diversi ergastoli a lui inflitti dalla giustizia italiana.
Cesare Battisti, infatti, è stato condannato con sentenze definitive all’ergastolo e ad un periodo di isolamento diurno, oltre che per banda armata, rapine, armi, gambizzazioni, per ben quattro omicidi: in due di essi (omicidio del maresciallo degli allora Agenti di Custodia Antonio Santoro, Udine 6 giugno 1978; omicidio dell’agente Andrea Campagna, Milano 19 aprile 1979), egli sparò materialmente in testa o alle spalle delle vittime; per un terzo (Lino Sabbadin, macellaio, ucciso aMestre il 16 febbraio 1979) partecipò materialmente facendo da copertura armata al killer Diego Giacomini; per il quarto (Pieluigi Torregiani, Milano 16 febbraio 1979) fu condannato come co-ideatore e co-organizzatore. Gli omicidi Sabbadin e Torregiani, infatti, furono compiuti a distanza di un’ ora l’uno dall’altro, nello stesso giorno (16 febbraio 1979, appunto, a pochi giorni dagli omicidi di Guido Rossa ed Emilio Alessandrini), perché responsabili, secondo “la giustizia proletaria”, di avere reagito a rapine che avevano subito poco tempo prima. Furono uccisi perché mai avrebbero dovuto reagire ai proletari costretti alle rapine per sopravvivere. La stessa organizzazione (Proletari Armati per il Comunismo, Pac), di cui Battisti era uno dei capì, organizzò i due omicidi in contemporanea per darvi maggior risalto: un gruppo agì a Mestre (tra essi Battisti), un altro a Milano.
Battisti, dunque, avrebbe dovuto essere estradato in Italia per finire nelle patrie galere e scontare le giuste pene inflittegli per i suoi agghiaccianti omicidi. Sennonché, nel marzo 2004 la Chambre d’Instruction della corte d’Appello ha accolto la richiesta di rilascio avanzata dai legali dell’italiano rifugiato dal 1990 in Francia, ritenendo i magistrati parigini che vi fosse il pericolo di fuga dell’assassino. Di fatto, Cesare Battisti è latitante perché ha lasciato la Francia. Il terrorista manca all’appello ”almeno da sabato 14 agosto 2004, data della sua ultima firma al servizio di controllo giudiziario di Parigi.”.
Una vergogna: a un terrorista assassino, giudicato colpevole con sentenze passate in giudicato, è stato permesso di fuggire e non pagare per gli omicidi commessi!
Come appartenenti alle Forze dell’Ordine e cittadini dell’Europa non possiamo che rimanere esterefatti ed amareggiati di fronte alla campagna di opinione che, in Francia, è stata scatenata intorno alla vicenda. Ne sono stati protagonisti non solo e non tanto i latitanti italiani che vivono in Francia ormai da molti anni, ma giornali autorevoli (Le Monde in testa), la lobby degli scrittori di sinistra (molto potente Oltralpe) ed una vasta area di “intellettuali”, di politici e di amministratori locali: tutti costoro hanno sostenuto che la condanna di Cesare Battisti fu frutto dell’azione della magistratura italiana italiana allineata alle logiche emergenziali dell’epoca, che quella sentenza è figlia di una giustizia applicata senza rispetto per le garanzie dei cittadini e che la cattura dell’estradando – dipinto più o meno come un eroe senza macchia e senza paura – è un favore che il governo francese avrebbe inteso rendere al governo Berlusconi. Per chi ha vissuto quegli anni operando nel settore del terrorismo, vedendo i colleghi e tanti cittadini inermi cadere sotto il piombo delle Br, di Prima Linea e di altri gruppi di folli criminali, queste giornate di ‘revisione storica’ del recente passato del nostro Paese sono deludenti e tristi: sembra di essere tornati indietro di 20/25 anni e di rivedere e risentire quanti (tra loro, persino alcuni magistrati stessi!) accusavano la magistratura di derive autoritarie ed antidemocratiche.
Da qualche tempo è uscito nelle librerie francesi un libro («Génération Battisti», edizioni Plon) del giornalista Guillaume Perrault che denuncia i pregiudizi e gli abbagli della sinistra francese e l’arroganza dei sessantottini sul caso del terrorista italiano chiamato Battisti. Lo hanno descritto molto bene Massimo Nava sul Corriere della Sera e Daniele Zappalà su Avvenire.
Come un turista della politica, il giovane cronista si avventura in un mondo esotico e sconosciuto, dove le categorie del pensiero e della morale comune rispondono a logiche diverse e gli ideali ad un sogno rivoluzionario incompiuto (il Sessantotto), a un trauma della società civile (l’affare Dreyfus), a un riflesso culturale (il Jean Valjean dei Miserabili ). È un mondo di ciechi che vedono un’altra realtà, d’intelligenti che spiegano senza capire, di politici che agiscono senza sapere, di parole che hanno un altro significato, di bugie così radicate e convinte da sembrare persino oneste. Questo mondo è la Francia del 2004, dove un caso di estradizione – persino banale nella sua dimensione giudiziaria (un ex terrorista ricercato e condannato per quattro omicidi) – è diventato affaire politico, disputa intellettuale, lacerante questione etica fra due sinistre, quella francese (contraria all’estradizione) e quella italiana (favorevole). Nei panni dell’esploratore che prova a capire il proprio Paese e che conclude il viaggio con tante scuse agli amici italiani, Guillaume Perrault, giornalista del Figaro, ripercorre l’affaire Battisti, l’ex terrorista rifugiato in Francia, protetto da un’interpretazione disinvolta della cosiddetta «dottrina Mitterrand» – l’impegno dell’ex presidente a dare ospitalità ai ricercati dalla giustizia italiana negli anni di piombo – reclamato dal governo Berlusconi e datosi alla fuga dopo la sentenza della magistratura francese che riconobbe la legittimità della richiesta di estradizione.
Cesare Battisti, evaso dal carcere e arrivato in Francia negli anni Novanta, non è un terrorista qualsiasi, collocabile in quella linea d’ombra che divide le responsabilità penali dal ravvedimento e dalla liquidazione morale di anni vissuti pericolosamente. È « anche» uno scrittore di successo, libri gialli pubblicati dalla prestigiosa Gallimard. È «anche», senza dubbio, un uomo che ha cambiato vita e che in Francia ha messo su famiglia. È « anche», a suo modo, lo specchio deformato delle passioni e dei sogni di una generazione che ha rinnegato gli atti senza fare i conti con le motivazioni degli atti stessi.
Perciò è più difficile accettare di vederlo in manette, rispondere alla domanda di giustizia delle vittime, sottomettersi ad una resa dei conti comunque tardiva. Meglio rispolverare lo spirito rivoluzionario della giovinezza, innescare campagne di solidarietà, manifestare e cantare davanti al carcere dove l’«eroe» appare con il pugno al cielo. E soprattutto, confinare la coscienza civile italiana, la lotta popolare al terrorismo (sconfitto dalla gente e non da una svolta autoritaria, come si crede a Parigi) e il lavoro dei giudici in una minestra ideologica che mescola anni di piombo e Berlusconi, leggi speciali e derive democratiche.
Così, nel corto circuito della memoria e della politica, si compie – come scrive Perrault – la farsa tragica in cui si agitano scrittori e intellettuali del calibro di Philippe Sollers, Daniel Pennac, Bernard-Henri Lévy e politici di primo piano come il sindaco di Parigi, che mette Battisti «sotto la protezione della città», o come il segretario socialista Hollande, che va a trovare l’ex terrorista in carcere. Si mobilitano sindacati, circoli culturali, associazioni, movimenti. Il coro di solidarietà è quasi unanime sulla stampa, con qualche voce isolata sul Figaro e un tardivo ravvedimento da parte di Le Monde.
Secondo l’attenta ricostruzione di Perrault, circolano anche menzogne deliberate, interpretazioni di comodo dei processi (come la falsa tesi che Battisti sarebbe stato condannato solo sulla base della testimonianza di pentiti), pregiudizi sulla «dottrina Mitterrand» (che non disse mai di voler ospitare terroristi macchiatisi di fatti di sangue). Ma in generale – più delle falsificazioni di comodo – pesano l’ignoranza della vicenda giudiziaria e una lettura ideologica e romantica. Le polemiche che il giornalista riapre non riguardano tanto la manipolazione di alcuni, ma la buona fede di molti, ovvero l’adesione acritica ad un caso giudiziario trasformato in caso di coscienza. «Non difendo Battisti, ma la giustizia, l’Italia, l’Europa», scrive ad esempio Bernard-Henri Lévy.
Nelle raccolte di firme e nelle dichiarazioni pubbliche di solidarietà, Battisti-Dreyfus sembra dunque la vittima di tre svolte autoritarie combinate fra loro in epoche diverse: l’Italia «cilena» degli anni Settanta, l’Italia di Castelli e Berlusconi e la Francia di Chirac e Sarkozy che rinnega quella di Sartre e Mitterrand. Il tutto con la beffa finale, perché Battisti-Dreyfus saluta i compagni della rive gauche in pena per lui, elude abilmente i poliziotti che lo seguono sulla metropolitana e sparisce. «Così forse sono contenti tutti, l’imbarazzo è risolto, ma l’accumulo di negligenze resta inspiegabile», annota Perrault.
Il cronista-esploratore è naturalmente convinto della colpevolezza di Battisti, della correttezza formale della magistratura italiana e dell’analisi della nostra sinistra sul caso, ma non è questa la parte più stimolante della sua esplorazione. Perrault si spinge con coraggio e disincanto nel territorio francese del «politicamente corretto», nei meandri delle false coscienze di una generazione che ha come riferimento identitario «l’aver fatto il Sessantotto» e che ha conquistato posti di potere e responsabilità in tutti gli ambiti della società senza metabolizzare il proprio bagaglio ideologico. Al di là del caso Battisti, i risultati sono l’arroganza di chi si sente depositario di verità, il protagonismo narcisista, la delegittimazione di chi la pensa diversamente, la presunzione di dar lezioni di morale e cultura a tutti, il professionismo della petizione, la supponenza nazionalistica di rappresentare l’«unica» patria dei diritti dell’uomo.
Vizi e atteggiamenti che mortificano il riformismo e il rinnovamento pragmatico della sinistra francese. «Non potendo fare la rivoluzione nel proprio Paese, si continua a sognarla altrove. Continua ad esistere il bisogno di provare a se stessi di essere sempre di sinistra e di non essersi allontanati da un ideale», nota nella prefazione un lucidissimo e anziano intellettuale socialista: Gilles Martinet, ex ambasciatore in Italia. «L’abbaglio è colossale e continua», insiste Perrault, il quale nota con amara ironia che il primo a raccontarlo, fra le righe di vicende autobiografiche, è proprio Cesare Battisti. Bastava leggere i suoi romanzi di successo.
C’è da augurarsi che presto il libro venga tradotto anche in Italia, dove non sono mancati – anche qui! – gli omologhi italiani di quella classe di intellettuali (sic!) e di esponenti del politically correct francese che hanno ‘santificato’ Cesare Battisti e mortificato la memoria delle persone da lui uccise e i ricordo dei familiari e degli amici.
Gentaglia alla quale va, naturalmente, il mio disprezzo assoluto.

Roberto Martinelli

 

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