Fabbriche e terrorismo: novembre 1980 – novembre 2010

Fabbriche e terrorismo: novembre 1980 – novembre 2010

  • 20 Novembre 2010

SESTO SAN GIOVANNI – TESTIMONIANZA – 20 NOVEMBRE 2010

Per questa mia breve testimonianza parto da un provvedimento che la Fiat prese cinque giorni dopo l’attentato di cui fui vittima: la sospensione di 61 lavoratori ad ottobre dell’anno 1979 e vado a ritroso sul decennio 1980-1970. La mia presentazione non ha assolutamente la presunzione di essere esaustiva. Non sono uno storico, o un giornalista, o un sociologo. Sono semplicemente un testimone di quegli anni.
La Fiat Mirafiori negli anni 70 per il tipo di tecnologia e per i volumi produttivi aveva un elevato numero di dipendenti. Il solo Stabilimento “Carrozzeria” aveva una “forza lavoro” di quasi 18.000 persone e quindi l’organizzazione, l’equilibrio tra i reparti, la distribuzione dei compiti, i controlli erano prerequisiti indispensabili per una corretta gestione dell’attività produttiva.
Nelle cronache del 1979 si legge che la Fiat aveva motivato il provvedimento di sospensione con “il progredire, il continuare, il ripetersi di atti di indisciplina, di atti di intolleranza, di atti di violenza spicciola (minacce soprattutto ai capi, avvertimenti mafiosi, telefonate e lettere anonime), piccole violenze quotidiane che generavano un clima di convinzione di impunità. Per Fiat non c’era un legame né immediato, né oggettivo, né implicito tra i provvedimenti di sospensione ed eventuali accuse di terrorismo”.
L’ambiente di lavoro era estremamente difficile e complicato, per tutti, soprattutto a partire dalla metà degli anni 70: automobili incendiate, ingovernabilità crescente, volantini intimidatori, sabotaggi agli impianti, distruzione di materiale con incendi dolosi..

Che cosa ha favorito la saldatura di questa violenza, che potremmo definire quotidiana, con l’estremismo del terrore? Potrebbe essere ovvio indicare tra le cause prime i grandi problemi sociali di quegli anni: il progetto di trasformazione della società, la decadenza dei grandi agglomerati urbani, la crisi delle istituzioni, l’avversa congiuntura economica, le lentezze nelle trattative per i nuovi contratti ecc….però credo di non sbagliare a condividere l’opinione di alcuni attenti osservatori di quegli anni: le pattuglie estremiste hanno trovato nelle fabbriche Fiat un terreno propizio per il clima di conflittualità permanente, prepotentemente imperante in quegli anni.
Lo dico sottovoce, ma probabilmente queste “pattuglie” sono state aiutate indirettamente dalla copertura offerta da alcune organizzazioni demagogicamente indulgenti verso tutti i “ribellismi”.

Se il clima della fabbrica poteva favorire l’infiltrazione di estremisti ci sembra comunque importante ricordare che il terrorismo non nasceva dalla emarginazione né dalla disperazione, perché una parte di terroristi aveva una cultura superiore o universitaria, mentre altri avevano una estrazione medio-borghese.
Io sono convinto che il terrorismo sia stato, e lo sia ancora oggi, un fatto politico che ha perseguito fini politici con il metodo della sopraffazione e dell’assassinio. Il terrorismo voleva la distruzione dello Stato democratico tramite la distruzione delle sue strutture e l’abdicazione progressiva delle forze che dovrebbero difenderlo.
In Fiat ho visto l’evoluzione del terrorismo caratterizzato inizialmente da azioni ispirate alla logica della “propaganda” (sequestri Amerio e Labate) per passare poi al tentativo programmatico di disarticolazione dello Stato. Ecco allora gli attacchi agli uomini che operano nelle Istituzioni (carceri, magistratura, avvocati, poliziotti); a quelli delle gerarchie aziendali (Fiat ed altri grandi gruppi industriali); e a quelli impegnati nel settore dell’informazione. In particolare in Fiat il tentativo dei terroristi mirava a provocare “il muro contro muro” tra dirigenza industriale e classe operaia, ad eliminare i tavoli di mediazione, le trattative, la ricerca di compromessi.

Per esperienza personale posso affermare che gli attentati sono stati politicamente pilotati e rivolti a persone che in fabbrica tentavano il dialogo con i lavoratori. E per portare avanti i loro disegni si erano attrezzati con una rete di informatori e fiancheggiatori che ci conoscevano molto bene sul lavoro ma anche negli ambiti familiari e sociali. Molto spesso è venuta nel mio ufficio una persona che è stata poi uccisa con altri terroristi in un conflitto a fuoco con i carabinieri e quando veniva da me aveva sulle spalle azioni terroristiche già concluse. La persona che mi ha sparato aveva un ruolo chiave nell’organizzazione delle Brigate Rosse, era uno dei 61 che aveva ricevuto la lettera di sospensione da Fiat.
Quando mi hanno colpito con cinque colpi di pistola, nell’ormai lontano ottobre 1979, avevano scelto il mio ambito familiare perché, uscito verso le 19 dal lavoro, ero passato nel negozio di mia moglie e qui mi hanno sparato, davanti ai famigliari, strappandomi dalle braccia il figlio di due anni. E’ stata una violenza doppiamente cattiva perché ha ferito profondamente anche la mia famiglia.

A nome dell’Associazione Italiana Vittime del Terrorismo che oggi, per specifica delega del Presidente, ho l’onore di rappresentare unitamente ad Antonio Iosa, desidero portare l’adesione e la solidarietà all’iniziativa odierna. La nostra Associazione ha tra i propri compiti statutari quello della conservazione della memoria delle vittime e degli eventi che appartengono a tutta la comunità e guarda pertanto con attenzione e con compiacimento ad ogni iniziativa che contribuisca alla realizzazione di tale obiettivo. Tale è sicuramente quella del Comune di Sesto san Giovanni che costituisce un ulteriore importante tassello che si aggiunge ai tantissimi che la società democratica continua a raccogliere per contribuire a inculcare nelle coscienze l’assoluta necessità di proseguire a combattere il terrorismo.

Chiudo rivolgendomi soprattutto ai giovani. Avete davanti agli occhi un sacco di opportunità: scegliete quelle giuste interrogando la storia.
Ricordiamoci comunque tutti: ”per nera che sia la notte, il giorno verrà sempre”.

Cesare Varetto

 

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