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Tag Vittima: P

Stefano Paolicchi

Il 2 luglio 1993, a Mogadiscio, alle 5 del mattino partì un’operazione di rastrellamento denominata “Canguro 11” del contingente italiano inviato in Somalia nell’ambito dell’operazione umanitaria voluta dalle Nazioni Unite, missione ITALFOR Ibis, di stanza a Balad.

Militari italiani, coadiduvati da soldati somali, svolgevano un’attività di rallestramento alla ricerca casa per casa di depositi di armi appartenenti ai miliziani di Mohamed Farrah Aidid, un potente “Signore della guerra” che con altri guerriglieri locali contendeva il controllo della città. A operazione pressoché ultimata, la tensione cominciò a salire con gli abitanti del quartiere che iniziarono ad inveire contro gli italiani fatti bersaglio di sassaiole. Vennero erette barricate. Per riprendere il controllo del territorio il Gen. Loi ordinò azioni di fuoco a scopo intimidatorio. La colonna di mezzi, già in procinto di fare ritorno a Balad, venne bloccata e si ritrovò sotto un fuoco incrociato con i miliziani nascosti tra la folla: fu fatta affluire verso l’area del pastificio (ex pastificio della Barilla) per fornire sostegno alle truppe del Raggruppamento Alfa, dirette verso il porto vecchio. Raggiunta l’area degli scontri attraverso una strada parallela alla via Imperiale, alcuni VCC (veicolo trasporto truppe) furono circondati da centinaia di civili, i quali misero la zona a ferro e fuoco ed impedirono alla colonna di procedere. In quel frangente, i miliziani somali iniziarono dall’alto a sparare raffiche di kalashnikov sui militari. Tre i soldati italiani uccisi.

Nella battaglia del pastificio è stato anche gravemente ferito alla colonna vertebrale, perdendo l’uso delle gambe, il Sottotenente paracadutista Gianfranco Paglia che, per la sua azione in combattimento ha ricevuto la medaglia d’oro al Valor Militare e che, nonostante l’invalidità nel 1997 è tornato a prestare servizio nell’Esercito prendendo parte alla missione SFOR in Bosnia ed arrivando al grado di Tenente Colonnello.

Strage di Via Palestro

La strage di Via Palestro
 

Attorno alle 23.00 del 27 luglio 1993, due vigili urbani transitarono con l’auto di servizio in via Palestro a Milano e furono avvicinati da un gruppo di persone che segnalarono la presenza di un’auto dai cui finestrini usciva del fumo. Qualche minuto dopo giunsero i vigili del fuoco che notarono la presenza, all’interno del cofano, di un involucro di grosse dimensioni. Temendo trattarsi di un ordigno esplosivo, ordinarono di evacuare la zona. Mentre si procedeva all’operazione, il veicolo esplose uccidendo uno dei vigili urbani, tre vigili del fuoco e uno straniero extracomunitario che dormiva su una panchina dei vicini giardini pubblici. Almeno dodici persone rimasero ferite. L’esplosione danneggiò, tra l’altro, il sistema di illuminazione pubblica, frantumò i vetri delle abitazioni in un raggio di circa 200-300 metri e lesionò il muro esterno del Padiglione di Arte Contemporanea sito sulla stessa via. L’esplosione raggiunse la condotta del gas sottostante alla sede stradale che prese fuoco. Per ore i vigili del fuoco non riuscirono a domare l’incendio. All’alba del mattino dopo esplose anche una sacca di gas formatasi proprio sotto il Padiglione. La seconda esplosione distrusse dipinti e danneggiò anche la Villa Reale, al cui interno aveva sede la Galleria d’Arte Moderna. La strage di via Palestro seguì, a distanza di due mesi, quella di via dei Georgofili a Firenze; precedette di appena un giorno gli attentati alla Basilica di San Giovanni in Laterano e alla Chiesa di San Giorgio a Velabro a Roma. Le sentenze l’hanno addebitata agli stessi esponenti mafiosi ritenuti responsabili della deliberazione di una sorta di “stato di guerra contro l’Italia”. “Cosa Nostra” puntò a distruggere il patrimonio artistico italiano, compromettere le attività turistiche, uccidere indiscriminatamente, per imporre allo Stato di “venire a patti”, di eliminare i trattamenti penitenziari di rigore, di modificare la legge sui collaboratori di giustizia, di chiudere istituti penitenziari -come l’Asinara e Pianosa -ritenuti tali da impedire i rapporti tra i capi detenuti e i complici in libertà.
 
A Milano, il 27 luglio 1993, la strage provocò 5 morti e almeno 12 feriti:
1. Alessandro FERRARI
2. Carlo LA CATENA
3. Driss MOUSSAFIR
4. Sergio PASOTTO
5. Stefano PICERNO


Armando Piva

La strage di Cima Vallona

Il 25 giugno 1967 terroristi sud-tirolesi minarono un traliccio della linea elettrica e lo abbatterono dopo aver collocato diverse mine antiuomo sulla obbligata via d’accesso. Subito dopo lo scoppio arrivarono sul posto alcuni alpini, uno dei quali rimase dilaniato da una mina. Stessa sorte subirono tre militari intervenuti successivamente per accertare l’accaduto e prestare i soccorsi. Un altro componente della pattuglia rimase gravemente ferito.

Giovanni Postal

La mattina del 12 giugno 1961 Giovanni Postal, cantoniere dell’ANAS, in servizio lungo la statale 12, all’altezza del km. 401, nel comune da Salorno, vicino al confine tra le provincie di Trento e Bolzano, rimaneva ucciso nel tentativo di rimuovere un ordigno collocato su un albero a lato della strada da terroristi del Comitato per la liberazione del Sudtirolo (BAS) in occasione degli attentati della “notte dei fuochi”.

Donato Poveromo

La strage di Peteano
 

La sera del 31 maggio 1972 una Fiat 500 imbottita di esplosivo fu abbandonata in un bosco vicino a Peteano, in provincia di Gorizia. Una telefonata anonima, che segnalava la presenza di un’autovettura sospetta con due fori di proiettile sul parabrezza, richiamò sul posto una pattuglia dei Carabinieri. Quando i militari aprirono il cofano, l’ordigno esplose, uccidendone tre e ferendone altri due. Si trattò di un agguato premeditato. Per identificarne gli autori, gli inquirenti batterono la “pista rossa” e quella della criminalità comune. Solo nel 1984 la loro attenzione si rivolse alla destra eversiva e, in particolare, a soggetti già militanti nella organizzazione “Ordine Nuovo”. Fu allora che un estremista confessò il fatto e ne indicò i coautori fornendo riscontri alle sue dichiarazioni. I riscontri forniti indussero alla pronuncia di condanne divenute definitive. Sia sentenze che elaborati della Commissione parlamentare sulle stragi adombrano che le originarie inefficienze investigative non sono state casuali.

a Peteano (GO) il 31 maggio 1972, 3 morti e 2 feriti:
1. Franco DONGIOVANNI, Carabiniere
2. Antonio FERRARO, Brigadiere C.C.
3. Donato POVEROMO, Carabiniere Scelto

Giuseppe Panzino

La strage alla Questura di Milano
 

Il 17 maggio 1973 si tenne -presso la Questura di Milano e alla presenza del Ministro dell’Interno, on. Mariano Rumor -la cerimonia commemorativa del primo anniversario della morte del commissario Luigi Calabresi. Verso le 11.00, al termine della cerimonia, un uomo scagliò una bomba a mano che uccise quattro persone e ne ferì circa cinquanta. L’attentatore fu immediatamente arrestato. Affermò di aver agito da solo perché mosso dalla propria scelta ideologica di “anarchico individualista”. Tempo dopo si accerterà che l’attentato era stato voluto e realizzato dal gruppo di estrema destra denominato “Ordine Nuovo”. Gli intenti erano quello di “punire” Mariano Rumor per avere promosso lo scioglimento della organizzazione in applicazione della “legge Scelba” (che vietava la riorganizzazione del disciolto partito fascista) e quello di “determinare – come effetto mediato – uno stato di caos e di tensione che avrebbe reso possibili una svolta autoritaria nel governo della Nazione e la emanazione di leggi di emergenza”. Alla condanna dell’attentatore colto in flagranza non seguiranno, all’esito dei numerosi processi, anche le condanne degli esponenti di “Ordine Nuovo” che l’accusa e alcune sentenze di merito avevano individuato come autori della strage. Nel 2005, la Corte di Cassazione dirà: “Deve ritenersi dato storico, oltre che processuale, ormai incontestabilmente accertato, la “provenienza” dell’attentato … da esponenti di Ordine Nuovo che avevano utilizzato chi fu arrestato in flagranza, legato a loro da vincoli antichi di vario tipo, al fine di mimetizzare la vera matrice dell’attentato e di accreditare la tesi della matrice anarchica che era insita nella strategia della tensione voluta da Ordine Nuovo”. La Corte di Cassazione aggiungerà peraltro che la posizione “eminente” ricoperta dagli accusati all’interno della organizzazione “Ordine Nuovo” non poteva costituire elemento di prova sufficiente per la condanna, ma solo un “indizio di partenza bisognoso di ulteriori riscontri, nella specie non emersi”. Secondo la Corte, le indagini non avevano chiarito, in particolare, il tipo di procedura che “Ordine Nuovo” adottava per le sue decisioni; non poteva quindi affermarsi che gli imputati avevano concretamente agevolato la realizzazione del gravissimo crimine.
All’attentato morirono:
Felicia Bartolozzi
Gabriella Bortolon
Federico Masarin
– Giuseppe Panzino

Luca Perucci

Luca Perucci era uno studente universitario appartenente alla organizzazione di estrema destra “Terza posizione”. Sotto gli occhi della madre e degli zii fu ucciso da due giovani terroristi con un colpo di pistola alla testa. Poco tempo dopo pervennero a tre quotidiani telefonate di identico tenore: “Qui i NAR. Abbiamo chiuso per sempre la bocca al delatore Perucci”. Perucci era stato sentito dai magistrati di Roma e Bologna nell’ambito di alcuni procedimenti per delitti associativi, per la strage di Bologna del 2 agosto 1980 e per l’omicidio del magistrato Mario Amato. Il timore dei NAR era che il Perucci avesse voluto “chiudere” con la violenza e avesse fornito informazioni agli inquirenti. Nell’ottobre 1981, in occasione dell’omicidio del capitano della Digos Straullu e del suo autista, agente Di Roma, i NAR rivendicheranno nuovamente l’omicidio di Perucci – oltre che la uccisione di Marco Pizzari – ribadendo che egli era un “traditore” e che per questo motivo era stato “annientato”. I processi accerteranno che il fatto era stato organizzato e commesso da esponenti del gruppo terroristico che lo aveva rivendicato. I processi accerteranno anche che con l’omicidio di Perucci i terroristi vollero accelerare la “campagna di annientamento” di chi, offrendo la propria disponibilità a collaborare con le forze di Polizia, aveva scelto di recidere antichi legami di amicizia o di simpatia politica o, addirittura, di complicità con appartenenti al gruppo criminale. In questo quadro si collocheranno, oltre all’omicidio di Pizzari, quelli di Ermanno Buzzi (13 aprile 1981), Giuseppe De Luca (31 luglio 1981), Mauro Mennucci (8 luglio 1982), Carmine Palladino (10 agosto 1982).

Marco Pizzari

Marco Pizzari fu ucciso a Roma da un commando di quattro giovani travestiti da agenti di Polizia. L’episodio, rivendicato da “Volante Rossa”, fu in realtà opera di esponenti del gruppo eversivo di estrema destra denominato “Nuclei Armati Rivoluzionari” (NAR) che ritenevano Pizzari “un delatore”. Egli era comparso nelle indagini sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980 e in altre indagini sull’estremismo di destra romano. Era stato più volte sentito dalla polizia giudiziaria e dalla magistratura perché indirettamente coinvolto nelle vicende riguardanti l’“alibi” di uno dei terroristi che sarebbero stati successivamente condannati per quella strage. L’omicidio fu rivendicato – assieme a quello di Luca Perucci (compiuto nel gennaio dello stesso anno) – nel comunicato che seguì l’agguato di Acilia dell’ottobre 1981, al capitano Straullu e all’agente Di Roma. I processi accerteranno che il fatto era stato organizzato e compiuto da esponenti della organizzazione terroristica che lo aveva rivendicato.

Peci Roberto

Roberto Peci fu rapito a San Benedetto del Tronto il 10 giugno 1981 da un commando terroristico composto da quattro uomini. Dopo cinquantaquattro giorni di prigionia fu ucciso quale atto di rappresaglia nei confronti del fratello Patrizio – militante delle “Brigate Rosse” – che, dopo la cattura, aveva collaborato con gli inquirenti consentendo la individuazione di “covi” e l’arresto di molti militanti dell’organizzazione. L’omicidio di Roberto Peci fu eseguito con undici colpi di arma da fuoco all’alba del 3 agosto 1981 a Roma, nei pressi dell’ippodromo delle Capannelle. Accanto al corpo fu rinvenuto il testo di una “risoluzione strategica” in cui le “Brigate Rosse-Partito della Guerriglia” (BR-PG) affermavano che “l’annientamento è l’unico rapporto possibile che intercorre fra proletariato marginale e traditori”. I processi condurranno alla condanna di esponenti del gruppo terroristico che lo aveva rivendicato.

Puddu Maurizio

Il 13 luglio Puddu, obiettivo designato delle Brigate Rosse, al termine di una riunione di consiglio lascia la sede della Provincia per rientrare a casa. Ecco come egli stesso descrive poi gli avvenimenti: “Avevo appena parcheggiato la vettura vicino al portone d’ingresso e, chiudendo la portiera, vidi due sconosciuti a tre metri da me che armeggiavano in una borsa. Ritirai la chiave e, quasi contemporaneamente, vidi che nelle mani dei due erano apparse due pistole con i silenziatori. Improvvisamente mi resi conto di quanto stava per accadere …un attimo dopo sentii una fitta lancinante alla gamba sinistra. Rimasi paralizzato dal terrore, mentre un dolore fortissimo mi pervadeva tutto. Pure mi scossi, rendendomi conto d’essere divenuto un bersaglio vivente. Trascinando faticosamente la gamba ferita tentai di fuggire tra le auto parcheggiate, mentre l’altro brigatista – una donna – sparava alcuni colpi per intimorire i soldati di una vicina caserma e le persone che si erano affacciate alle finestre. Una seconda pallottola mi raggiunse all’addome, inciampai e l’acuta sofferenza mi obbligò ad accasciarmi sul cofano di un’auto …il sangue usciva copioso da un’arteria lacerata e le forze mi abbandonarono. Ero ormai debolissimo, scivolai a terra e vidi chino su di me uno dei killer che gelidamente alzava ancora la pistola. Implorai ‘per favore basta!’, ma ancora mi raggiunsero altri colpi, poi svenni”.
In totale furono sparati contro Maurizio Puddu 14 colpi di cui sette a segno all’addome, alla gamba sinistra e a quella desta.

NOTE:
– Pubblicazioni, interventi e comunicati di Maurizio Puddu sono presenti nella sezione “Inziative” di questo sito.
– M. Puddu è stato fondato e presidente di AIVITER fino al suo decesso il 21 maggio 2007: si veda pagina nella storia dell’Associazione